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Una verità che nessuno vuole ascoltare
Dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri, Susan Abulhawa ripercorre, attraverso quattro generazioni, la storia di una famiglia palestinese che è la storia di un popolo umiliato, defraudato, violentato, torturato, trucidato in nome di una sudicia e dissennata legge di compensazione, sotto gli occhi indifferenti e compiacenti di un Occidente che si dimostra sempre più forte con i deboli e debole con i forti. Si parte dal 1941 ad ‘Ain Hod, un pacifico villaggio ad Est di Haifa che vive tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole. La famiglia Abulheja, guidata dal patriarca Yehya Muhammad, trascorre un’esistenza serena traendo sostentamento da una terra fertile, generosa e ricca di tradizioni secolari. Ma da quando in Europa si è conclusa la Seconda Guerra Mondiale, l’aria in Palestina diventa sempre più pesante. Ebrei scampati alla Shoa si riversano nel Paese spinti dalla rabbia e dalla paura e fomentati da pericolosi sentimenti sionisti. Il progetto di pacifica convivenza si rivela ben presto un’utopia e cede il passo alla violenza, alla prepotenza, al sangue. La lotta è impari, da un lato c’è un popolo povero, praticamente disarmato e abbandonato a se stesso; dall’altro uno ricco, armato fino ai denti e appoggiato da influenti potenze. Il risultato è scontato e per Yehya Abulheja e la sua famiglia non ci sono molte alternative: o fuggire o sottostare alla legge del nemico. Ma lasciare la propria terra non è semplice, a maggior ragione quando si viene cacciati con la prepotenza e l’ingiustizia. Ecco quindi che per i protagonisti si aprono le porte del campo profughi di Jenin, con le capanne di paglia e fango donate dall’ONU come squallido e ridicolo risarcimento per il sangue versato e per la terra perduta. Una vita da reclusi in casa propria, soggetti a regole imposte con la forza, con un cecchino sempre pronto a premere il grilletto, ad osservare nella totale impotenza stranieri che si comportano come se fossero sempre stati i padroni. In queste condizioni scorre la vita della famiglia Abulheja e, tra paura e umiliazione, tra morti e violenze, c’è anche il tempo per la speranza, per il ricordo, per l’amore. C’è un uomo sparato alle spalle per aver osato cogliere un frutto da quello che era sempre stato il suo albero, ci sono due fratelli che si ritrovano a combattere contro, donne che impazziscono per il dolore, altre violentate e sventrate con una vita ancora in grembo. Ci sono memorie incancellabili di albe poetiche e di abbracci affettuosi, speranze tradite e diritti calpestati, famiglie che nascono e crescono tra massacri e sofferenze, legate da sentimenti più forti di qualsiasi odio o ingiustizia. C’è chi resta e combatte, chi resta e subisce, chi va via e poi ritorna, chi va via e non ritorna più. C’è un libro che tocca nel profondo, che racconta vicende che colpiscono dritte e brutali come un pugno nello stomaco. C’è una storia romanzata che sembra avere molto di autobiografico e che coinvolge e appassiona per l’umanità dei personaggi e la dolcezza della prosa. C’è una storia vera, la storia di un popolo a cui è stato tolto tutto raccontata dal punto di vista dei più deboli. C’è una verità da urlare al mondo ma c’è un mondo che questa verità non vuole ascoltarla, un mondo che confonde vittime e carnefici, che chiama “operazione di pace” una forza d’attacco di novantamila uomini e parla di “terrorismo” quando dei ragazzini lanciano pietre contro dei carri armati. Non ci sono “giornate della memoria” per un eccidio senza precedenti che continua ancora oggi nella più totale indifferenza, non ci sono risoluzioni delle Nazioni Unite capaci di fermare l’orrore, non ci sono occhi che vogliano vedere né orecchie che vogliano sentire. “«Avete paura che il mondo veda quello che fate ai bambini?» «Zitta. Ti ammazzo qua su due piedi, se no» la minacciò lui alzando il fucile ma, stranamente, con un sorriso sul volto. Imperturbabile, la suora rispose: Spara. Non siete diversi dai nazisti che volevano impedirmi di prendermi cura degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale».”
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