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Armonia, malattia e vita.
«Non mi compatisca» disse tagliente. «La malattia ci dona esattamente quanto ci toglie.» «Tanto quanto la musica?» chiesi con assoluta mancanza di tatto. «Ci dà qualcosa di diverso, ma nella stessa misura» insistette. P. 59
Era il terzo Natale dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale quando ha luogo l’incontro tra lo scrittore io narrante e Z., pianista ungherese di grande talento musicale oltre che di notevole fama. Quella comunione di circostanze e pensieri che sorge tra i due uomini, non è altro che un rincontrarsi ad anni di distanza da quei salotti dove immancabile era la figura di E., donna maritata, di grande fascino e presenza. Ed è a seguito di questo incontro, ed è solo e soltanto dopo mesi da questa notte che, l’io narrante, riceve quel manoscritto di cui le voci e le parole avevano proferito. Un lascito, non solo una memoria.
Firenze. Il musicista ha appena terminato uno dei tanti concerti che ha in programma quando lo sente, quando ne percepisce la presenza. Qualcosa è cambiato, il suo organismo lo sta avvertendo del fatto che una strana malattia è insita nel profondo; tutto ha principio con una leggera nausea, un capogiro, con un qualcosa che in lui «morì per poi allo stesso tempo farlo rinascere» come se fosse «morto per la vita e nato per la morte». Di fatto questa è in realtà una patologia dolorosa, incerta, invalidante, capace di arrecare la paralisi oltre che altre sofferenze nel corpo e nell’anima. Il lungo ricovero ha inizio, dei salotti dell’alta società, del ménage a trois con E. la moglie del diplomatico comune amico, della musica e di tutto quello che sino ad allora costituiva la sua quotidianità, non vi è più traccia, si tramuta in un sogno, in una bolla, in un universo parallelo; una seconda vita che si è intercambiata con quella della degenza, con quella dettata, statuita e regolata dal male che affligge, che sfianca, che priva. Una nuova realtà scandita quindi dal ritmo inesorabile delle cure che si susseguono a quegli incontri costanti della giornata: il professore, l’assistente medico, le quattro sorelle e… il dolore. Il patire è una voce sorda, regolare, continua, che compare nelle ore e nei momenti della giornata più inconsueti, che talvolta concede una tregua silenziosa, per poi riaffiorare nel cuore dei momenti più inaspettati come una lama di coltello che penetra le carni.
I giorni passano, tutti uguali, cadenzati dalle visite della alta e grossa suor Dolorissa, dalla bella ed ingenua suor Cherubina, dalla diligente suor Mattutina e dalla cerea e meticolosa suor Carissima, donne che altro non sono che le custodi del segreto della malattia, sono cioè «depositarie del segreto di mille tormenti, umiliazioni, miserie umane. [.. ] Portavano la felicità proibita, e sapevano che il tormento e il piacere, nel corpo straziato, cercano ospitalità con la stessa crudele indifferenza (p.147)». Ma spesso nemmeno questa quotidianità instaurata è sufficiente ad alleviare il patimento, è necessario ricorrere a quel “rendez-vous chimico” che facendo leva sulle sostanze stupefacenti, appiana quella sensazione di disagio, di male senza, apparentemente, chiedere alcunché indietro. Ed è in questo limbo, in questa atroce sensazione di nulla che inizia l’analisi della propria vita, del proprio passato, presente e della consapevolezza dell’assenza di un futuro poiché tra le eredità della malattia vi è la paralisi a ben due dita, anulare e mignolo, della mano destra. Non ha altra scelta se non quella di dire addio alla musica colonna portante del compositore.
«Avevo capito che l’unico senso della mia via era stato servire quella tenue armonia; e che ormai tutto era in ordine, perché avevo adempiuto al mio compito, avevo servito fedelmente la musica, non avevo mai peccato contro l’armonia di proposito, e con ogni energia del corpo e della mente, della ragione e della volontà avevo espresso quello che la musica voleva dire. [..] L’avevo capito, finalmente. Quando era venuto a mancare? Non riuscivo a trovare una risposta. Nonostante l’esercizio, l’ansia del perfezionamento, la cura scrupolosa dei particolari, non avevo raggiunto la musica: è pur vero che erano ben pochi coloro che, come me, erano in grado di servire la musica con tanta imparziale fedeltà, con la stessa coscienza di sacrificare ogni capacità fisica e spirituale, ma io avevo smarrito il contenuto divino della musica, il vissuto.» pp. 89/91.
«La melodia non ha mai “senso”. Eppure esprime cose che a parole non si è capaci di esprimere.» p. 228
Quelli della degenza sono per Z. giorni in cui elabora, riflette sulla propria arte, sul proprio essere, sui suoi sentimenti. La malattia a tal proposito sembra evolversi finendo cioè col rappresentare la menzogna della vita, lo strumento con il quale ha finito per identificare il vuoto esistenziale dettato dall’insoddisfazione, dalla mancanza, che lo circondavano. Quella voce femminile che durante una tanto attesa – puntura della – notte gli sussurra “non voglio che lei muoia” fornisce al malato l’energia e la speranza necessarie a non lasciarsi andare al buio dell’aldilà.
Quello di Marai è un elaborato ricercato, fornito di una trama solida nonché di una penna ricercata, mai approssimativa e sempre eruditamente avvalorata. L’autore riesce infatti a rendere atto all’essere umano la sua complessità, quello che è il profondo insieme di strati e substrati che consciamente e/o inconsciamente lo compongono. Tante sono le perle di riflessione contenute in questo romanzo, tanto in merito alla malattia che alla condizione di malato, quanto al parallelismo tra chi assiste il paziente e chi subisce questa condizione, tanto in merito a quella sofferenza non sempre fisica bensì psicologica che viene definita patologia ma che in realtà è ben altro. Talvolta, sembra sussurrarci Marai, basterebbe analizzarla più nel dettaglio questa psiche, poiché attraverso questa ricerca potremmo conoscere delle risposte ai nostri più arcani enigmi.
«La ragione è nulla. La passione è tutto. Forse è quello che Goethe chiamava Idee, e così Platone e gli altri, i quali sapevano che il senso della vita è la passione che splende dietro le forme. La passione è più forte del piacere.» p. 178
«Il suo polso è eccellente. Lei ha una tempra straordinaria, maestro. E ha imparato molto negli ultimi mesi. E’ stato un ottimo paziente. Ha imparato che non basta essere malati, non basta prendere le medicine. Bisogna anche rispondere, alla malattia e a tutto ciò che ci mandano la malattia e la guarigione. Anche questo bisogna impararlo. E poi, quando la vita ci chiama..» p. 227
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