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Anestesia della coscienza: fallita
“Eccoli gli uomini: vanno avanti e indietro per la strada: ognuno è un mascalzone e un delinquente per natura, un idiota. Ma se sapessero che io sono un omicida e ora cercassi di evitare la prigione, si infiammerebbero tutti di nobile sdegno.”
Annichilimento della ragione: questo spinge il giovane Raskol’nikov a commettere il suo delitto, un omicidio che per uno strano incrocio di premeditazione e casualità diventa duplice. Vittime sono un’usuraia, un pidocchio dell’umanità, e l’innocente Lizaveta, colpevole solo di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. E’ da qui che parte il dramma della coscienza del protagonista. Se fino a questo momento la lotta interiore del giovane si era combattuta essenzialmente tra ragioni economiche e ragioni morali, dunque qualcosa di prettamente personale, ora essa si sposta su un piano trascendente, assumendo connotati più universali con l’entrata in gioco di principi filosofici, storici, religiosi, umani. In una Pietroburgo sfocata, teatro di miseria e depravazione, l’animo di Raskol’nikov diventa un teatro insanguinato da scontri sconosciuti, tanto che il giovane giunge sul baratro di una pazzia – se reale o solo presunta dagli altri non è mai chiarito.
“Oh, che gli importava ora della propria abiezione, di tutte quelle vanità, dei tenenti, delle tedesche, delle cambiali, degli uffici di polizia, eccetera, eccetera! Se in quel momento lo avessero condannato anche a esser bruciato, neppure in tal caso egli si sarebbe mosso, e forse non avrebbe nemmeno ascoltato con attenzione la condanna.”
Raskol’nikov tenta di anestetizzare la sua coscienza, tra autoconvincimento e inconfessata paura di esser scoperto, tra orgoglio e inettitudine – egli non utilizza mai i soldi rubati alla vecchia, “ufficialmente” il motivo dell’omicidio –, proseguendo ancora sulla strada della prostrazione della volontà. Nel prendere in giro gli altri, egli si assume l’ebbrezza del rischio con la sua teoria degli uomini normali e degli uomini di genio, direttamente ereditata dalla filosofia della storia di Hegel: gli uomini normali sono la maggioranza, ovvero coloro i quali si incaricano di rispettare e far rispettare le leggi della moralità e della società; gli uomini di genio sono le rare eccezioni, ovvero coloro i quali fanno progredire la storia poiché a loro è lecita l’infrazione della legge per un fine superiore e per la propria autoaffermazione, cioè quelli che Nietzsche chiamerà superuomini. E’ così che egli tenta di giustificare a sé stesso la propria azione, convincendosi di aver eliminato dal genere umano un essere inutile e pidocchioso, dannoso. Ma l’idealità di questa teoria cozza esplicitamente con l’umanità sopita del giovane.
“Dove mai ho letto che un condannato a morte, un'ora prima di morire, diceva o pensava che, se gli fosse toccato vivere in qualche luogo altissimo, su uno scoglio, e su uno spiazzo cosí stretto da poterci posare soltanto i due piedi, – avendo intorno a sé dei precipizi, l'oceano, la tenebra eterna, un'eterna solitudine e una eterna tempesta –, e rimanersene cosí, in un metro quadrato di spazio, tutta la vita, un migliaio d'anni, l'eternità –, anche allora avrebbe preferito vivere che morir subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualunque modo, ma vivere!... Quale verità! Dio, che verità! È un vigliacco l'uomo!... Ed è un vigliacco chi per questo lo chiama vigliacco.”
A cambiar le carte in tavola intervengono gli altri personaggi: l’affetto cieco e puro della madre e della sorella, donne di sani principi pur nella miseria; il fedele appoggio dell’amico Razumichin, emblema dell’ideologia socialista con la sua praticità e lo spirito altruista; l’infamia di Lugin, il ricco promesso sposo della sorella che rivela la sua ipocrisia e bassezza morale; la pena per la famiglia di Marmeladov, un ubriacone conosciuto in una bettola che ha colpito il protagonista con la storia della sua sfortunata famiglia. Ma sono tre in particolare i personaggi-chiave per il cammino della coscienza di Raskol’nikov. Il primo è Svidrigajlov: uomo abietto e depravato, sospettato di omicidi e pedofilia, oltre ad aver infamato la sorella di Raskol’nikov, in lui il protagonista trova un suo doppio degradato. L’implicito legame tra i due è testimoniato dalla pregnante opacità dei loro dialoghi, laddove l’estremizzato nichilismo di Svidrigajlov riesce a pungere la coscienza ancora solo addormentata di Raskol’nikov, che vede in lui il suo terrificante possibile futuro.
“– Noi ci rappresentiamo sempre l'eternità come un'idea che non possiamo comprendere, come una cosa immensa, immensa. Ma perché dovrebbe essere immensa? E se lassù non ci fosse altro che una stanzetta, simile ad una rustica stanza da bagno affumicata, e in tutti gli angoli ci fossero tanti ragni? Se l'eternità non fosse altro che questo?
– Possibile, possibile che non riusciate a figurarvi qualcosa di più consolante e giusto di questo?, esclamò Raskòl'nikov con un sentimento doloroso.”
Il secondo è Porfirij Petrovi?: giudice istruttore del processo per l’omicidio delle due donne, egli si pone come l’avversario dialettico di Raskol’nikov, rappresentando l’invincibile voce della razionalità. Si tratta dell’unico personaggio che il protagonista realmente teme, l’unico su cui presagisce la sua sconfitta: la sua intelligenza e la sua abilità, infatti, tengono a lungo il giovane sul filo, tra sospetti celati e dissimulazione, in uno stillicidio che alimenta l’esasperazione del protagonista. Porfirij è convinto della colpevolezza di Raskol’nikov, ma non ha prove per dimostrarla, pertanto fa leva sulle sue capacità oratorie per indurlo a confessare, pur non sganciando mai il suo obiettivo da un fine morale: il suo intento non è infatti quello di punire il colpevole, ma quello di far sì che sia il colpevole stesso a richiedere una punizione come espiazione. Porfirij induce Raskol’nikov alla confessione non per sé stesso, ma per liberarlo dalle colpe che evidentemente lo sconvolgono. Dostoevskij è infatti convinto che ogni uomo macchiatosi di un delitto desidera, nel profondo, espiarlo per soddisfare il proprio senso morale. E’ per questo che Porfirij non sfrutterà la confessione di Raskol’nikov, attendendo che sia lui inesorabilmente a confessare, segnando così il fallimento della teoria degli uomini di genio.
“Avete perduto ogni fiducia, e credete che io vi lusinghi grossolanamente; ma quanto avete già vissuto? Quanto capite? Ha inventato una teoria e poi si vergogna che abbia fatto cattiva prova, che sia riuscita una cosa ben poco originale! È riuscita un'infamia, è vero, ma voi tuttavia non siete un infame che non lasci più speranza. Siete tutt'altro che infame a tal punto! Tutt'altro che infame a tal punto! Per lo meno, non vi siete illuso a lungo, siete subito arrivato agli estremi limiti. Sapete come vi giudico io? Vi giudico uno di quelli a cui si potrebbero anche strappar le budella, e continuerebbero a stare in piedi e a guardare con un sorriso i loro torturatori, – purché trovassero una fede o un Dio. Ebbene, trovatelo e vivrete. Voi, anzitutto, già da molto tempo avete bisogno di cambiar aria. Eh, via, anche la sofferenza è una buona cosa. Soffrite. […] Lo so, che vi manca la fede, ma non state a sottilizzare scaltramente; abbandonatevi alla vita senz'altro, senza ragionare; non abbiate timore: vi porterà direttamente sulla riva e vi rimetterà in piedi. Su quale riva? Che ne so io? Io credo soltanto che abbiate ancora molto da vivere.”
Il terzo è Sonja: figlia dell’ubriacone Marmeladov e della sua moglie tisica, costretta a prostituirsi per mantenere la sua famiglia, è lei la vera e propria responsabile del risveglio e della rinascita di Raskol’nikov. Commosso dalla sua storia, il giovane si innamora di lei, un amore puro, senza alcun accenno di sensualità, un amore delle anime. E’ lei la prima persona a cui il protagonista confessa il suo delitto e, nonostante lei fosse amica di Lizaveta, pur nel suo turbamento gli rimane vicina, risveglia la sua coscienza dandogli qualcosa in cui credere. Sonja si fa incarnazione di entrambe le vie di salvezza costantemente propugnate di Dostoevskij per l’uomo, ossia l’amore e la fede in Dio, a cui avvicina l’ateo Raskol’nikov con i suoi riferimenti alla morale cristiana e alla risurrezione di Lazzaro nel Vangelo. Ella lo porta all’apice della disperazione (“Perché doveva vivere? Quale scopo proporsi? A che tendere? Vivere per esistere? Ma un migliaio di volte egli era stato pronto anche prima a dare la sua esistenza per un'idea, per una speranza, anche per un capriccio. La semplice esistenza era sempre stata poca cosa per lui, aveva sempre voluto di piú. Forse soltanto per la forza dei suoi desideri egli si era allora creduto un uomo a cui piú che ad altri fosse permesso.”) e così lo induce a confessare il suo crimine, aprendogli le porte alla rinascita, alla salvezza attraverso la sofferenza, a una nuova vita che sembrava impossibile, proprio come per Lazzaro. Ma qui comincia un’altra storia.
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