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Lei, la prigioniera, mi imprigionò ...
Durante un viaggio in Grecia in compagnia del marito e dell’Orestea di Eschilo, davanti alla diruta ma imponente Porta dei Leoni a Micene la Wolf incontra, come in una “visione”, la sacerdotessa di Troia, la veggente del mito destinata a non essere mai creduta: dall’incontro, come ella stessa scrive nelle Premesse, fortuito, nasce il personaggio letterario, alimentato da solida documentazione archeologica e letteraria ma anche “vissuto” dall’interno: «La vidi subito. Lei, la prigioniera, mi imprigionò […] si impadronì di me. Credetti a ogni sua parola. […]. Tremila anni – dissolti».
Davanti alla porta di Micene, prigioniera di Agamennone che già ha visto cadere sotto la scure di Clitennestra, in attesa di cadere ella stessa, Cassandra conduce un lungo silenzioso monologo che, con moto ondivago rievoca le vicende di Troia, dal ratto di Elena (o meglio del suo simulacro) alla catastrofe finale: un monologo intrecciato di memoria e riflessione, in cui la prima persona cede il posto al «tu» di un ideale colloquio con i suoi grandi amori, morti o lontani: Enea e l’amazzone Marpessa,
Attraverso le memorie dell’antica sacerdotessa di Apollo, la Wolf conduce una riflessione su diversi temi a valore universale e al tempo stesso calata nel presente in cui l’Autrice stessa vive (il romanzo fu pubblicato nella DDR del 1983): innanzitutto sulla condizione femminile, tradizionalmente relegata ai margini ed esclusa dalle stanze del potere e dalle decisioni stolte e sanguinarie che ne emanano, dettate da una sete di potere e denaro non meno cieca della rabbia omicida che arma il braccio di Achille, la bestia. Inizialmente schierata dalla parte del maschio, figlia prediletta di Priamo rispettata e ascoltata, Cassandra verrà confinata nel ruolo di reietta quando si rifiuterà di sostenere con vaticini di comodo la folle guerra contro i Greci; scoprirà allora un altro modo di vivere, più autentico e umano, praticato in disparte nelle grotte dello Scamandro dalle donne votate al culto di Cibele e raccolte attorno al saggio Anchise, il padre di Enea, l’uomo che, amato da Venere, ha accolto dentro di sé l’antico sapere femminile.
La condanna della guerra, dell’insensata marcia dell’umanità verso la distruzione è l’altro tema, che risente di quel clima di tensione che si respira nell’Europa della guerra fredda, in precario equilibrio sul filo del terrore per una imminente catastrofe nucleare: Cassandra, la professionista della parola, riflette il ruolo che Christa Wolf assegna alla scrittura, quello di tener viva l’indignazione, e al tempo stesso la speranza.
Ma per giungere ad un nuovo e al tempo stesso antichissimo umanesimo, sembra dire la Wolf, bisogna andare oltre Omero (o meglio leggere nelle pieghe di Omero), demistificare l’eroe, superare la retorica delle grandi gesta e lasciare nuda la bestia: «Se avevamo creduto che l’orrore non potesse più aumentare, ora dovevamo riconoscere che non c’è limite alle atrocità che gli esseri umani commettono gli uni contro gli altri; che noi siamo capaci di rovistare nelle viscere dell’altro, di schiacciargli il capo alla ricerca dell’acme del tormento. “Noi” dico, e di tutti i Noi a cui sono approdata, questo resta quello che maggiormente mi turba. E’ molto più facile dire “Achille la bestia” che questo Noi»,