Dettagli Recensione
Una grande Commedia Umana dei nostri tempi
Quando penso a David Foster Wallace, e ai suoi libri, mi viene in mente un grande genio della musica: Keith Jarrett (che tra l'altro Wallace menziona nel primo racconto de La Ragazza dai Capelli Strani). Così come il grande genio delle sette note non può essere considerato solo un musicista o un semplice pianista, né tanto meno essere inquadrato in un unico genere musicale - in quanto la sua opere è un qualcosa che trascende le note, un qualcosa che ti eleva (e ti estranea) e ti porta un una dimensione "altra", fino a straniarti tramite i mille colori, rivoli e generi delle sue note.
Allo stesso modo Wallace, a mio avviso, non può essere considerato solo un romanziere o uno scrittore o un saggista, in quanto la sua opera letteraria è un qualcosa che, in primis, tocca vari aspetti, usando vari linguaggi (ora Pop, ora cosiddetti "accademici" o "alti") della nostra società, permettendo riflessioni filosofiche, sociologiche, psicologiche e anche di satira. Insomma, così come Jarrett, ritengo che Wallace sia stato un grande pensatore e filosofo del nostro tempo.
E così come Jarrett, attraverso la sua musica, esplora, tocca e reinventa(a modo suo) i vari generi musicali, passando dalla Classica, al Blues, al Country, sino ad arrivare a un certo tipo di Pop Music contemporanea, il tutto però – così come dice il critico musicale Franco Fayenz – attualizzandolo in un presente che non c’è, in un presente del tutto personale dell’artista; allo stesso modo gli scritti di Wallace sono un caleidoscopio di generi letterari e di vari linguaggi e stili narrativi – passando da una scrittura ora ironica, ora classica, ora moderna, ora sperimentale.
Per stare nell’ambito letterario, se pensiamo ai grandi scrittori emersi negli ultimi venti-venticinque anni, i nomi di punta, tra coloro che si inseriscono nel sorco di quel postmodernismo segnato da autori come Pynchon, DeLillo e Roth, le penne più rappresentative e talentuose sono quelle di tre grandi scrittori americani: Dave Eggers, Jonathan Franzen e David Foster Wallace. Se Eggers può essere considerato il grande innovatore, per quanto riguarda la narrativa delle ultime due decadi, e Franzen il grande romanziere nel senso classico del termine (la definizione di Tolstoj moderno, a mio avviso è del tutto calzante); Wallace si inserisce, a volte sì e volte no, in entrambi i filoni: sia in quello che va verso una tradizione classica, sia nel realismo isterico, che è una delle grandi chiavi della letteratura postmoderna. Ma gli scritti che Wallace ci ha lasciato in eredità sono un qualcosa che si inseriscono sì nel postmoderno, ma sono essenzialmente un qualcosa che trascende e, nello stesso tempo mischia e sintetizza, una visione sia classica che postmoderna.
Ecco, il monumentale Infinite Jest è la summa di tutto ciò che è stato David Foster Wallace: un narratore, un innovatore/restauratore, un accademico/anti-accademico, uno scrittore che con la sua visione sarcastica ma mai cattiva del mondo è stato in grado, nelle sue pagine, di raccontare le mille sfaccettature del genere umano...una vera e propria Grande Commedia Umana dei Nostri Giorni.
Scrivere una recensione di Infinite Jest è cosa che potrebbe sembrare titanica e complicata, in quanto il libro è assente di una vera e propria trama. Il volume di 1179 pagine, con ulteriori 100 pagine di note (vero marchio di fabbrica di Wallace) ha come tema la dipendenza sotto le sue varie forme e sfaccettature (dalla droga a l’alcool, dalla tv allo bellezza, dallo sport al cibo); con l’azione che si svolge in un futuro prossimo (rispetto a quando fu scritto il libro nel 1996) che è molto simile al nostro presente
La dipendenza, sotto tutte le sue forme, diviene un palliativo, nonché un’esemplificazione di “antidoto” contro l'ineluttabile solitudine e sofferenza dell’individuo secolarizzato. Quindi, abbiamo giovani promesse di tennis, i quali vivono la competizione (che qui si fa anche metafora della competizione sfrenata e senza scrupoli e regole della società contemporanea) come una droga autoindotta da genitori che vedono nei loro figli un antidoto contro i propri fallimenti e le proprie angosce; giovani promesse che, presi da una competitività sfrenata e malata, e da un qualcosa che gli viene imposto e non vissuto con gioia e divertimento, cadono nella spirale della dipendenza di droga e alcool visti come unica possibilità – così come succede anche per molti dei loro genitori – di stemperare solitudine e dolore. Ma la dipendenza è anche la tv, guardata in modo compulsivo da tossici, i quali vivono la propria tossicodipendenza come dipendenza nella dipendenza.
Così come la pubblicità, la quale arriva a pervadere a tal punto la società che gli anni verranno non più chiamati numericamente, ma con i nomi di marchi pubblicitari (Anno del Pannolone per Adulti Depend, solo per citarne uno). Ma la solitudine a la sofferenza vengono anche narrate tramite chi cerca di mollare le droghe (le Sostanze); allora assistiamo ai vari travagli e rimpianti del povero Don Gately, il quale rimpiange una probabile carriera nel football professionistico in nome del suo primo e vero grande amore, la Sostanza. In tutto questo scenario ci sono terroristi indipendentisti spietati su delle sedia a rotelle, ex comici che diventano presidente dell’Onan (nato dalla unificazione di Canada con Stati Uniti e Messico), persone dall’aspetto mostruoso (che poi tanto mostruosi in realtà non sono, ma che forse rappresentano una delle poche possibilità di umanità e, quindi di salvezza). Fin che non compare una misteriosa cartuccia di un film che si pensava perduto, Infinite Jst, il quale è il non plus ultra di tutte le dipendenza per chiunque lo veda, tanto da ridurre il potenziale spettatore in uno stato catatonico che alla fine lo porta alla morte. Quindi il lettore si trova catapultato in una lettura che è un vero e proprio caleidoscopio di personaggi, stili e digressioni (realismo isterico).
Ma la il libro di Wallace vuole dirci che la nostra natura, la nostra società, la nostra natura è qualcosa di irrimediabilmente perso nella solitudine e nel dolore, e che siamo costretti ad oscillare, come il pendolo di Schopenhauer, tra il dolore e una distrazione da tale dolore tramite la dipendenza? In realtà no, lo scrittore americano ci lascia con una nascosta e velata (velata come una delle protagoniste del libro) possibilità di “salvezza” interiore e sociale, a patto che si accettino le nostre , e quelle degli altri, debolezze e deformità (esteriori e interiori), che si accetti la sconfitta e che non la si viva come tale. Il compianto genio di Wallace crea un surreale iperuranio sociale, il quale – nella suo essere surreale – diviene il manifesto di ciò che la nostra epoca vive, e in modo sarcastico e ironico ci vuole mettere in guardia e indicarci una possibile via di fuga e/o di salvezza.
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