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E' la gente dura che rende i tempi duri
Culla e Rinthy Holme, rispettivamente fratello e sorella, vivono soli in una baracca putrida e fatiscente circondata da boschi e paludi, una zona acquitrinosa pregna di umidità, avvolta da una perenne foschia in cui i raggi del sole si disperdono cedendo tutto il loro calore, già abbondantemente filtrato dagli alberi secolari della foresta.
Non c'è vita intorno a loro, se non quella animale, selvaggia; sembrano naufraghi su un'isola sperduta, nessuna traccia dei loro genitori, l'unica orma umana è quella del calderaio che sporadicamente attraversa quel territorio trainando il suo carretto stracolmo di cianfrusaglie di ogni genere. E poi c'è quel bimbo che Rinthy è in procinto di partorire.
Un bimbo che rimarrà senza nome perché questo è il suo destino, quello di non esistere, frutto di un errore, di un rapporto sbagliato, contro natura, tra un fratello ed una sorella.
Non c'è futuro, non c'è speranza, non c'è luce là fuori per quel bambino, ha varcato una porta che per lui doveva rimanere chiusa, spinto in un mondo che non può essere il suo; ma è inutile opporsi, inutile sperare di sopraffare l'ineluttabilità della sorte.
Quando Culla, padre sbagliato, riporterà il bambino al suo giusto padre, la natura, abbandonandolo appena nato nel mezzo della palude sperando che da essa sia risucchiato, quando il calderaio passando lì per caso lo sottrarrà ancora una volta al suo destino affidandolo ad una balia, quando Rinthy animata dal legame di sangue e dalla certezza che il figlio sia ancora vivo deciderà di fuggire dal fratello e partire alla ricerca del bambino, inizierà un viaggio che metaforicamente rappresenta un tentativo di riscatto, di ribellione, il desiderio di ritrovare la luce, la propria luce, nell'oscurità dilagante.
Un viaggio attraverso terre senza tempo, hanno un nome che le localizza nel Wyoming ma potrebbero essere ovunque, terre impervie, desolate, dominate dalla natura ed abitate da uomini e donne che sembrano privi di anima, di sentimenti, vuoti dentro, aridi e polverosi come la terra che li circonda, quasi disumani nella loro abulia.
Abbandonate ogni speranza voi che leggete: il viaggio nell'inferno di McCarthy è una discesa senza freni nel baratro più profondo, senza possibilità di risalita; non c'è purgatorio né paradiso, ma ci sono le tre fiere, tre belve feroci, tre uomini che seminano morte ovunque passino, senza pietà, perché non c'è pietà in questo mondo e non c'è un Dio interessato alla sorte degli uomini.
Il mondo di McCarthy è avvolto in una cortina di pessimismo e di implacabilità, la descrizione del paesaggio ne è intrisa ed abbonda di similitudini cupe e sempre più angoscianti:
"La strada proseguiva insinuandosi nel folto della foresta e in un'umidità perenne, e la casa era coperta da una spessa coltre vellutata di muschio e lichene ed avvolta da un palpabile miasma di decomposizione. I polli avevano grattato via la terra dal cortile, al punto che nodosità e sporgenze delle radici degli alberi spuntavano ovunque dal suolo in grottesche configurazioni, simili ad una congrega di folli improvvisamente denudati in tutti i loro contorti atteggiamenti di dolore."
Il finale è inevitabile, come inevitabile sarà la fine del mondo, vana è la lotta contro l'oscurità di chi cerca di procurarsi da solo la propria luce, di costruirsi un proprio destino: tutto prima o poi viene riavvolto nel buio, là fuori:
"Perché non pregate per riavere i vostri occhi?
Credo che sarebbe un peccato. Quei poveri occhi possono solo farvi vedere ciò che accadrebbe comunque. Se un cieco avesse bisogno degli occhi, avrebbe gli occhi.
Eppure sono convinto che vi piacerebbe vedere dove state andando.
Che bisogno ha un uomo di vedere dove sta andando, se verrà comunque mandato là ?"