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La tristezza del clown
“Ho sempre litigato con Maria a proposito del riposo di Dio; mi domandavo se il Dio nel quale lei crede si prende anche lui il suo riposo e lei diceva sempre di sì, andava a prendere il Vecchio Testamento e mi leggeva dalla Genesi: 'E al settimo giorno Dio riposò'. Io la contraddicevo con il Nuovo Testamento. Dicevo che poteva anche darsi che Dio riposasse, ma un Cristo che alla sera smette di lavorare non me lo potevo immaginare. Maria divenne pallida quando lo dissi; ammise che l'idea di un Cristo col riposo serale le appariva blasfema. Aveva fatto festa, questo sì, ma riposato nel senso comune non aveva mai.”
Un giovane che ha scelto di fare il comico, il mimo, il cabarettista, l'autore e attore di numeri esilaranti, sebbene non approverebbe nessuna di queste etichette, perché si ritiene – semplicemente (!) – un clown.
Non c'è mestiere più complicato, specie per chi si ritrova a farlo nell'atmosfera spaesata della Germania postbellica, dove ci si chiede come sia potuto accadere quel che è accaduto, oppure, per praticità d'approccio, si cerca soltanto di rimuoverlo dalla propria coscienza.
Nella sua esistenza controcorrente, Hans Schnier attraversa paesi, stazioni di treni, palcoscenici, interni di tassì, camerini, alberghi e pensioni, ilarità di un pubblico sempre diverso, tenendo stretto a sé un unico punto fermo: Maria. Agli occhi dell'uomo dietro la maschera da clown, Maria rappresenta la ragazza vista e subito amata, la persistente attrazione per la donna, un desiderio che si tramuta rapido in irrinunciabile punto d'appoggio.
Perciò, quando lei va via, Hans è assalito e sconfitto dalla tristezza.
Un clown triste – si sa – non fa più ridere; magari finisce a rompersi una gamba sul palcoscenico, solo per avere il pretesto di tornare nella sua casa a Bonn, e sdraiarsi sul letto o nella vasca da bagno a rimuginare e recriminare...
Bel libro, questo di Boll, che si regge – più di quanto ci si accorga – sulla sottile ironia del paradosso: il protagonista è un clown, ma il racconto è un monologo dal contenuto amareggiato e accusatorio (seppur venato di notevole sarcasmo). Un monologo che, per inciso, è perfettamente adattabile alla scena teatrale.
Schnier ne ha per tutti: per la madre ottusa, per un padre che si pente fuori tempo massimo dei suoi errori educativi, e soprattutto per l'ipocrita religiosità di un cattolicesimo piccolo-borghese diffuso nella Germania dei primi anni '60. Recrimina sul fatto che la stessa sua adorata (e timorata) Maria gli sia stata sottratta dalle chiacchiere dei “pastori” di un cristianesimo fasullo, per scappare infine con il deprimente Zupfner, un adepto.
Al clown con il ginocchio gonfio a mollo nell'acqua calda – contrariato con il mondo – non resta che prendere coscienza di un ultimo paradosso: la Germania della ricostruzione e del miracolo economico postbellico è una vasca vuota pronta a contenere di tutto, anche un artista dalle quotazioni che scendono sempre più sul fondo, inesorabilmente.
“Tutti sanno che un clown deve essere malinconico per essere un buon clown, ma che per lui la malinconia sia una faccenda maledettamente seria, fin lì non ci arrivano.”
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