Dettagli Recensione
L'intolleranza dei tolleranti
Il pregiudizio, il razzismo, la maldicenza, la discriminazione, e le loro conseguenze: la violenza psicologica, fisica e quella forse peggiore di tutte quella morale, quella autoinflitta per tentare di uniformarsi, per diventare quello che la società vuole che tu sia... Questi e molti altri i temi al centro della trattazione de La Macchia Umana, un romanzo che non a torto molti definiscono il migliore di Roth. È questo infatti, ancor più di Pastorale e del Complotto contro l’America, l’opera di uno scrittore compiuto, totale, che è consapevole all’infinitesimo di ogni suo mezzo e che non si pone limiti se non solo quelli dettati dalla logica e dal buon senso. Quelli dettati dalla consapevolezza ormai raggiunta nell’arco di quarant'anni di carriera che può spingersi nel ragionamento e nella riflessione fino addirittura a trascurare la storia e trattenere una sorta di dialogo con se stesso e con noi lettori, un dialogo che, una volta accettato, non potremo far a meno di notare come sia illuminato dalla scintilla di un’intelligenza, una sensibilità e una cultura fuori dal comune.
Scordatevi leggendo La Macchia Umana di scene avvincenti ricche di pathos o di passioni ardenti, scordatevi persino del film, nel caso l’abbiate visto, la vicenda è marginale, ciò che accade lo si può riassumere in due righe: un professore universitario di chiara fama (e di “mimetizzate” orgini afro americane) viene ingiustamente accusato di razzismo e lentamente emarginato da un mondo, quello accademico e quello bacchettone del paesino americano in cui vive, finché egli stesso diventa vittima della discriminazione e del razzismo, finché egli stesso, proprio come aveva fatto in gioventù è costretto a crearsi una nuova realtà e una nuova vita... Bene, scordatevi di tutto questo, è solo marginale, ciò che conta è il pensiero, la profondità a cui giunge la riflessione di Roth, una profondità tale che gli consente di presentarci il problema dell’intolleranza sotto una luce nuova,, autenticamente anticonformista e per questo realmente coraggiosa: l’intolleranza dei tolleranti.
Non amo nelle recensioni mettere citazioni testuali, poiché m’è sempre sembrato un po’ come un modo di “fregare” il lettore, risparmiarsi la fatica del compito scopiazzando qua e la, tuttavia poiché qui concretamente esaustive del significato del romanzo, nonchè dell’onestà e del coraggio dell’autore, farò un paio di eccezioni.
Si parla del protagonista che lascia la provincia americana per sfuggire ai pregiudizi e le mal dicenze della piccola città alla ricerca di un’identità individuale scevra dal bigotto machismo della retorica nazionale, scevra dalle facili accuse e gli ingiustificati processi pubblici:
“… Poi partí per Washington e, nel primo mese, fu prima un negraccio e nient’altro, poi un negro e nient’altro. No. No. Vide il destino che lo aspettava e non gli piacque. Ci arrivò intuitivamente e spontaneamente si ritrasse. Non puoi lasciare che il grande “loro” t’imponga la sua intolleranza e non puoi nemmeno permettere che il piccolo “loro” diventi un “noi” e ti imponga la sua etica. No alla tirannia del “noi” e alla prima persona plurale con cui essa si esprime e a tutto ciò che il “noi” ti vuole ficcare in testa. Non era per Coleman la tirannia del “noi” che muore dalla voglia di assimilarti, lo storico e inevitabile noi morale coercitivo e assorbente col suo insidioso E pluribus unum. (….) L’io nudo e crudo, invece, con tutta la sua agilità. Andare alla scoperta di se stessi: ecco il vero pugno alla labonza. La singolarità. La lotta appassionata per la singolarità. Il singolo essere umano. La mobile relazione con ogni cosa. Non statica ma mobile. Autocoscienza, ma dissimulata. Cosa c’è di altrettanto potente?”
E ancora quando ormai da professore anziano, la cui carriera è stata irrimediabilmente rovinata dall’ ignorante e dittatoriale perbenismo di un ambiente puritano, torna al campus per allontanarsi da un nuovo presunto (e falso) scandalo sperando che i tempi siano cambiati, che ormai la gente sia maturata, e con grande delusione, udendo le chiacchiere di tre giovani assistenti sul caso Clinton - Lewinsky, capisce che nulla è cambiato e se in realtà ci sono delle differenze, grazie ai media che hanno reso l’opinione un mezzo di coercizione di massa, violentando il pensiero logico individuale, queste sono solo in peggio:
“…si sedette su una panchina ombreggiata dalla vecchia quercia nocchiuta più famosa della corte (…) e si sforzò, con calma di riflettere sulle coercizioni del decoro. Sulla tirannia della decenza. (…) la briglia che il decoro è per la pubblica retorica, l’ispirazione che fornisce agli atteggiamenti personali, la persistenza, quasi dappertutto, di questo svilizzante “virtuosismo” da pulpito che H. L. Mencken identificava con la stupidità, che Philip Wylie definiva mammismo, che gli europei, astoricamente, chiamano puritanesimo americano, che i pari di Ronald Regan chiamano valori irrinunciabili dell’America, e che mantiene un ampia giurisdizione mascherandosi da qualche altra cosa: da ogni altra cosa. Come forza il decoro è proteiforme, un dominatore in mille travestimenti, che s’ infiltra, se neccesario, come civica responsabilità, dignita Wasp, diritti alle donne, orgoglio nero, fedeltà etnica o sensibilità etica ebraica gonfia di emozioni. Non è come se Marx o Freud o Darwin o Stalin o Hitler o Mao non fossero mai esistiti: è come se non fosse mai esistito Sinclair Lewis. È come, pensava Coleman ( Silk ), se Babbit non fosse mai stato scritto. È come se nella coscienza, a provocare il minimo turbamento, non fosse mai stato ammesso neppure quel livello assolutamente elementare di pensiero immaginativo. Un secolo di distruzioni diverso nei suoi eccessi da ogni altro viene a intristire la razza umana: decine di milioni di persone comuni condannate a patire una privazione dopo l’altra, un’atrocità dopo l’altra, un male dopo l’altro, mezzo mondo, o più di mezzo, sottoposto a patologico sadismo come politica sociale, intere società organizzate e ostacolate dalla paura di violente persecuzioni, la degradazione della vita individuale raggiunta in una misura ignota nella storia, nazioni vinte e ridotte in schiavitù da criminali ideologici che le privano di tutto, intere popolazioni cosí demoralizzate da essere incapaci di alzarsi dal letto la mattina col minimo desiderio di affrontare la giornata… Tutte le terribili pietre di paragone offerte da questo secolo, ed eccoli levarsi e prendere le armi per una Faunia Farley. Qui in America o è Faunia Farley o Monica Lewinsky! Il lusso di queste vite cosí turbate dai comportamenti inappropriati di Clinton e Silk! Questa, nel 1998, è la depravazione che devono sopportare. Questa, nel 1998, è la loro tortura, il loro tormento e la loro morte spirituale. La fonte della loro più grande disperazione morale, Faunia che mi fa un pompino e io che mi scopo Faunia. Sono un depravato non soltanto per aver detto una volta la parola “spettri” (in inglese spooks, termine usato anche denigratoriamente per identificare persone di colore), in un aula piena di studenti bianchi, e di averla detta badate, non mentre stavo lí a riesaminare l’eredità della schiavitù, le invettive delle Pantere Nere, le metamorfosi di Malcom X, la retorica di James Baldwin, o la popolarita radiofonica di Amos ‘n’ Andy, ma mentre facevo l’appello abituale. Sono un depravato non soltanto a causa di....
Questo il “piccolo loro” e il “grande loro”, alle prese con il “noi”, con come ovvero noi siamo costretti dalla società ad adeguarci a costumi, mode, opinioni e come a sua volta noi facenti parti di questa società costringiamo altri dettando regole, arrogandoci il diritto di considerare gli altri copie conformi alla nostra, con il nostro stesso modo di pensare, il nostro stesso modo di sentire e allorchè ci accorgiamo che non è cosí, come siamo sempre pronti ad ergerci a paladini del bene e del giusto, schiacciando, distruggendo qualunque cosa differente, qualunque cosa singolare, individuale, personale, intima. Questo è ciò contro cui si scaglia Roth ed è valido oggi giorno per qualunque scelta, qualunque affermazione. Qualcuno che giudica e condanna nel sua “superba bontà” ci sarà sempre: Non sei di destra? Comunista! Non sei di sinitra? Fascista! non sei pro America? Terrorista. Non sei filoislamico? Guerrafondaio! Non sei nero, giallo, verde, gay, lesbica travestito, donna, handicappato, disabile, malato, vecchio? Misogeno, violento, razzista! Non sei bianco, ricco, atletico, cristiano? Sfigato! Opportunista? Ipocrita! Fino ad arrivare alle forme nostrane più becere, stupide, e per questo forse anche volgari e comiche: non sei milanista? Merda! Non sei interista? Merda! Non sei Juventino...
E l’uno? L’individuo? Quello che il singolo è a prescindere dall’appartenenza ad un gruppo, un credo, una bandiera? E ancor più dell’essere? Quello che uno vuole? Quante violenze morali, fisiche, psicologiche siamo costretti a sopportare per uniformarci, quante violenze ci auto imponiamo per far parte di questo “grande loro”?
No, non c’è niente da fare non lo capiamo proprio e anche se a suo tempo, dopo le guerre e le vere violenze e le vere atrocità di cui rimanere scioccati, moralmente deturpati, l’avessimo capito, ormai, instupiditi dal benessere, l’abbiamo dimenticato. L’uno! Il singolo contan più del gruppo! Perchè la vecchietta va in chiesa e l’ultra allo stadio, o viceversa? Perchè entrambi cantano i propri inni? Perchè uno urla olè e l’altro alleluja, se non per sentirsi parte di qualcosa di più grande, se non per sentirsi, in compagnia, più forti, più al sicuro? Ma la vecchietta additerà l’agnostico fuori sul sagrato come l’ultrà interista il milanista (solo il dito forse cambia) e I “Buoni”, I “ Tolleranti” gli “Irriducibili modaioli difensori delle minoranze” additeranno entrambi, senza capire che anche loro hanno bisogno di credere in qualcosa, che anche loro esattamente come tutti gli altri possono volere, desiderare, sbagliare… L’intolleranza della tolleranza, le minoranze che forti della protezione delle maggioranze diventano esse stesse sovverchianti maggioranze: il professore un tempo detentore del potere in aula che per l’uso incauto di un termine viene cacciato, rovinato senza possibilità di appello, senza possibilità di difesa. L’ uomo qualunque che viene condannato da un’intera comunità per una storia con una donna di qualche anno più giovane e che proprio per questo viene identificata come debole vittima di un soppruso. Ma se è lei che lo vuole? Se anche a lei piace?
Farsi forti della forza degli altri, condannare quando gli altri condannano, applaudire quando applaudono. Per appartenere, per sentirsi, anzi, giacchè coinvolge tutti, per sentirci accettati, per illuderci di far parte di qualcosa, per non vedere che in realtà siamo solo ombre d’uomini, deboli macchie che al primo cenno di bontà siamo pronti a ripudiare interamente noi stessi, che per un abbraccio, per una pacca sulla spalla per un coro allo stadio e un cenno di assenso di una decina di teste, siamo pronti a prosituirci, a svendere la nostra individualità. Ma ci sarà poi qualcosa in quelle decine di teste? E nelle nostre? Macchie! Nient’altro che macchie!
Questo è il significato di quelle frasi e del libro, questo è il succo del pensiero di Roth, non che quello di questa recensione, e quelle, le sopra citate frasi, come molte altre presenti nell’romanzo, andrebbero lette e rilette a certe schiere sociali che se ne approfittano vivendo, e prosperando, sulla stupidità di molti e il reale disagio degli altri; andrebbero ripetute allo sfinimento, per convincerli della loro ipocrisia, anzi altro che leggerle, anche a costo di macchiarmi del medesimo reato, andrebbero urlate loro in faccia, per assordarli, per non permettere più di ascoltarsi e crogiolarsi nel loro finto perbenismo! Ma tanto loro non capirebbero, tanto loro sono in troppi e non ascolterebbero e anche se per una volta ascoltassero, per bene come sono, per bene come solo noi sappiamo essere..., in barba all’individualità, di Roth, in barba alla sua intelligenza, al suo coraggio, sarebbero subito pronti a condannare... Macchie!
La macchia umana, forse il romanzo migliore di quello che forse è lo scrittore migliore, almeno del nostro tempo.