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Vite che, per fortuna, non sono la nostra
È la notte di Natale del 2004, stesi a letto Emmanuel e Hélèn parlano di separarsi. È passato solo un anno dal loro primo incontro, un anno in cui la passione ha pian piano smesso di bruciare, e ora quella notte in cui dicevano di essersi finalmente trovati sembra solo un bel sogno destinato a perdersi con il trascorrere del giorno. Ancora un’intera notte da trascorrere vicini, sfiorandosi consapevoli che tutto si è ormai sgretolato, in una camera dell’hotel Eva Lanka, in Sri Lanka.
La luce del mattino avanza, un’altra giornata da trascorrere nell’ozio con il sole caldo sulla pelle, e non importa che tutto sia ormai finito, non ancora. Poche ore e Hélèn e Emmanuel scopriranno che mentre loro hanno ancora una possibilità, non è lo stesso per l’Isola, niente sarà più lo stesso per l’Isola e moltissimi dei suoi abitanti. La tragedia privata diventa insignificante al confronto con quanto sta succedendo a poche centinaia di metri dal loro hotel. La morte, distruzione e devastazione, la perdita, il caos. Una sola parola affiora sulle labbra dei sopravvissuti: l’onda.
È l’inizio di tutto, l’inizio della fine. Emmanuel Carrère è testimone dello tsunami che nel 2004 si è abbattuto sullo Sri Lanka privando migliaia di madri dei propri figli, migliaia di figli dei propri genitori. Lui è lì, con la compagna e i rispettivi figli, sfiorati appena dalla tragedia ne escono pienamente vincitori. Vincitori contro la vita, di nuovo decisi a mettersi in gioco e a invecchiare insieme. Ma il dolore di quei giorni trascorsi a contatto con la disperazione profonda di chi si è trovato all’improvviso privato di una vita amata resta attaccato alla pelle, invisibile sotto la superficie.
“Tu che sei uno scrittore, scriverai un libro su tutto questo?” A priori no.
Così, passato il pericolo, tornati al sicuro delle proprie mura domestiche, tutto sembra dimenticato. “Non è toccato a noi, siamo vivi, possiamo tornare a vivere”. Trascorrono pochi mesi, si torna alla quotidianità, e un’altra tragedia sfiora Emmanuel Carrère, una tragedia privata questa volta, che tocca da vicino la compagna della sua vita, Hélèn: sua sorella Juliette ha un cancro al seno con metastasi ai polmoni. Non c’è più nulla da fare. L’unica soluzione possibile è la morte. Emmanuel viene di nuovo calato nel ruolo di spettatore, partecipe del dolore di una famiglia che non è la sua si sente solo parzialmente coinvolto. Viene trascinato nelle incombenze del lutto, fidata spalla su cui sfogare il dolore e così conosce Ètienne, vero protagonista di questo libro di morte.
Emmanuel Carrére ci consegna la storia della malattia e della devastazione di cui è stato testimone, lui sempre appena sfiorato dal dolore, sempre muto osservatore di un dolore troppo grande per essere sopportato da soli. Eppure le pagine di “Vite che non sono la mia” sono piene di un coraggio travolgente che permette ai protagonisti di sopravvivere alla perdita, di più, di vivere la perdita in tutta la sua straziante realtà e da lì riprendere a vivere, riuscendo ad abbracciare di nuovo la felicità. La capacità di Carrère di descrivere con assoluto distacco tutto ciò che lo circonda è la lente giusta attraverso cui spiare vite che sì, per fortuna, non sono la nostra e allora possiamo anche tirare un sospiro di sollievo e non negare il piacere che ci procura la lontananza dal dolore.
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