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IL FILOSOFO E LO SMOKING: LA PRIGIONE DELLA FORMA
Jean Paul Sartre, almeno stando alle sardoniche parole di André Maurois, non accettò il premio Nobel per la Letteratura “perché incapace di indossare uno smoking”: una personalità magmatica e controcorrente come quella del filosofo avrebbe potuto soffocare in un elegante abito da sera. Sartre, in effetti, temeva di poter diventare un simbolo, temeva che la sua vita potesse essere sublimata in un puro concentrato di forma e convenzione: “Non voglio essere letto perché Nobel, ma solo se il mio lavoro lo merita” dichiarerà.
Il viluppo di forme, immagini e schemi con cui gli uomini imbrigliano l’esistenza per trarne conforto, da cui il filosofo ha sempre cercato di sfuggire, è la grande maschera che viene a cadere nella sua opera letteraria; è ne La Nausea (1938) che, in particolare, Sartre proietta sulla figura dello storico Antoine Roquentin le sue inquietudini, le sue turbe e le sensazioni provate che scaturiscono direttamente dall’estraneità della forma e dalla rivelazione dell’esistenza, crudo e grigio sostrato, che come la gobba di un mostro marino emerge silenziosa e indistinta dalle acque serene dell’illusione a indicare qualcosa di terribile, ma vero.
L’esistenza si rivela gradatamente, come un timido fiore marcescente che diffonde pian piano, schiudendo la corolla, il suo disgustoso olezzo: Roquentin ne fa esperienza soltanto dopo essere riuscito a capire in profondità la Nausea che lo affligge sin dalla prima pagina dell'opera, che si configura come un diario, o meglio come un auto-referto di una malattia dell’animo.
La Nausea è un metafisico senso di disgusto che accompagna Roquentin ogni volta che concentra la sua attenzione su un oggetto (si tratti di un sasso, di un foglio di carta o di una forchetta): egli si accorge che sempre più spesso la trappola dei sensi e delle idee con cui cerca di catturare gli oggetti, la coscienza, va in tilt, fallisce nel suo slancio di conoscenza, o meglio di “falsificazione”, e gli oggetti non fanno altro che approfittarsene trasfigurandosi a loro piacimento, ammantandosi di forme disgustose e viscide.
“È dunque questa, la Nausea: quest’accecante evidenza? Quanto mi son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto – il mondo esiste – ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto” scrive Roquentin.
Nel romanzo sembra innescarsi un processo simile a quello che coinvolge il protagonista de La Metamorfosi di Kafka: ma se lì era il protagonista a far emergere fuori da sé una forma inaccettabile per i suoi familiari, simbolicamente espressa dal suo esoscheletro, qui è l’altro, il mondo (quello che in Kafka è rappresentato dalla famiglia) che assume forme inaccettabili per la trascendente coscienza del protagonista, che s’arrende allo sfilacciarsi del senso.
Ma presto anche Roquentin si trasforma kafkianamente: “Guardano la mia schiena con sorpresa e disgusto; credevano ch’io fossi come loro, che fossi un uomo ed io li ho ingannati. D’un tratto, ho perduto la mia apparenza d’uomo ed hanno visto un granchio che fuggiva a ritroso da quella sala così umana”.
Roquentin si è spogliato dello smoking della forma, si scopre egli stesso Nausea. Il sicuro contorno che delimita gli oggetti si spezza, tutto è assurdo e contingente, Roquentin affronta la visione dell’esistenza, che sguscia fuori gli involucri della forma: “La radice del castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini han tracciato sulla loro superficie […]; la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, tutto era scomparso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenze, una vernice. Questa vernice s’era dissolta, restavano delle macchie mostruose e molli in disordine, nude, d’una spaventosa e oscena nudità. Eravamo un mucchio di esistenze impacciati, imbarazzati di noi stessi, non avevamo la minima ragione di essere lì, né gli uni né gli altri, ciascuno esistente, confuso, vagamente inquieto, si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto che io potessi stabilire tra gli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli”.
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Ho letto il libro quando forse non avevo la maturità per affrontarlo, per cui m'è rimasto soprattutto il ricordo della noia
(nausea?) nel portare avanti la lettura.