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Recensione
La società indiana che la Nair vuole rappresentare, tradizionalista e conservatrice, esplica pesanti condizionamenti sull’identità femminile: dipendenza dalla famiglia, impossibilità di autodeterminazione, soggezione alle figure maschili sono la regola per le protagoniste di questo romanzo.
I racconti delle sei donne (tenuti assieme da un pretesto fragilissimo, un viaggio in treno nella medesima cuccetta ferroviaria) si dipanano in modo parallelo senza mai incrociarsi; i fatti narrati sono così slegati che l’opera avrebbe tratto vantaggio – e si sarebbe forse presentata in modo più onesto – se fosse stata impostata come raccolta di racconti del tutto autonomi.
L’autrice ci prospetta questo gruppo di viaggiatrici che, senza timori o reticenze, si raccontano fin nei più intimi dettagli le vicende, talvolta scabrose, della loro esistenza. Stupisce, innanzitutto, che si dia per scontata la confidenza tra donne accordata in modo così immediato e incondizionato. È più facile che questo tipo di complicità istintiva scatti tra uomini che tra rappresentanti del sesso femminile: antagonismo e diffidenza non mancano nei gruppi di soli maschi, ma in quelli di sole donne sono più spiccati e marcanti.
La narrazione risulta un po’ artefatta e forzata e lo svolgersi degli eventi, sempre a lieto fine, presenta contraddizioni in termini di tenuta logica e di tratteggio psicologico. Sono ingenuità (o furberie?) che si avvertono in particolar modo nella vicenda della moglie che ingozza il marito perché ingrassi fino ad aver bisogno di un ricovero in una clinica specializzata; la donna afferma di sapere che l’obesità gli fa regolarmente perdere mordente e cattiveria, gli ammannisce quindi, in modo subdolo e continuativo, abbondanti porzioni di cibo che ha cura di preparare personalmente. Sembra che il metodo dell’ingrasso funzioni: l’uomo, aumentando di peso, perde la sua tracotanza e si trasforma in un pingue borghese inoffensivo.
Anche la storia della donna che, dopo una sola settimana di bagni all’aperto, supera tutte le sue inibizioni e, riconciliatasi con il proprio corpo, riscopre improvvisamente i piaceri del sesso, è veramente troppo ottimista, anche a voler accordar credito alle propagandate proprietà terapeutiche del nuoto.
La narrazione delle vicende di Akila, quarantacinquenne sfruttata dalla famiglia che coraggiosamente decide dopo anni di sacrifici di cambiare vita, sembra essere più equilibrata e strutturata rispetto a quella delle altre donne. A poche pagine della fine del romanzo, però, terminato il suo viaggio in treno, la donna si concede una spensierata avventura sessuale occasionale. Quello che l’autrice non ci spiega è come possano tutti i condizionamenti accumulati durante un’esistenza di educazione repressiva improvvisamente allentarsi e lasciare spazio a tanta disinibita libertà d’azione.
Fin dal titolo l’autrice strizza l’occhio a una supposta sensibilità femminile che, grazie a Dio, è più complessa ed esigente. Questo quadretto rosa che l’autrice confeziona per blandire un pubblico di lettrici è nel complesso melenso e poco veritiero.
Mariangela
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