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The danish girl
 
The danish girl 2016-04-20 15:33:28 Mian88
Voto medio 
 
2.3
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
2.0
Mian88 Opinione inserita da Mian88    20 Aprile, 2016
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Greta e Einar

Greta Wegener, ventinove anni californiana, pittrice ritrattista, giungeva in Danimarca all’età di dieci anni. Originariamente una Waud, casato di ricchi proprietari terrieri, la giovane dal carattere spigliato, disinibito, ilare si sentiva subito attratta da quel professore così riservato, rigido, silenzioso, Einar Wegener, paesaggista amante dei fiordi e degli scenari serafici di quella Danimarca così intima.
Nella primavera del 1925 i due erano già sposati da più di sei anni, vivevano nella casa delle Vedove con il cane Edvard IV e il tempo sembrava essere volato tanto rapidamente era trascorso. Einar e Greta si erano conosciuti all’Accademia reale di Belle Arti il primo settembre 1914, la ragazza aveva appena 17 anni mentre il professore, timido, scapolo e a disagio tra gli adolescenti, poco più di venti. Mentre lei aveva spalle larghe di chi ha passato l’infanzia a cavallo e i capelli biondi lunghi fino alle reni, il docente aveva il viso di un ragazzino, con la bocca piccola e di un colore così intenso che nessun rossetto sarebbe mai riuscito ad eguagliare, le orecchie sempre rosse, i capelli castano chiaro che gli ricadevano sbarazzini sulla fronte, il corpo esile e stretto con un petto femminile caratterizzato infatti da due seni pronunciati e ben lontani da quelli propri dell’emisfero maschile.
E seppur del tempo fosse trascorso da quella volta in cui Einar aveva posato nei panni di Anna, ormai Lili era una costante, una presenza ineludibile nella vita della coppia. Giorno dopo giorno il marito finiva con l’essere sempre più oscurato dalla personalità della Elbe. Al suo ritorno dalle commissioni Gerda, immancabilmente trovava quei bigliettini dalla stessa lasciati, inesorabilmente chiedeva al coniuge se Lili quel pomeriggio gli aveva fatto visita e sempre più frequentemente si trovava dinanzi la risposta che si, effettivamente, vi era stata.
Con “The Danish girl”, romanzo d’esordio, David Ebershoff narra la storia di questa anima di donna intrappolata in corpo di uomo, una sofferenza tale da necessitare un intervento chirurgico destinato a porre in essere il cambiamento di sesso in un’epoca, l’Europa del ’30, in cui la medicina e la società concepisce tale desiderio quale una deformazione mentale, come una malattia piuttosto che come una necessità, un bisogno fisico.
Seppur l’intento sia dei migliori francamente la storia narrata è stata eccessivamente romanzata dall’autore tanto che chi legge fatica ad entrarvi dentro, a lasciarsi conquistare. Nonostante infatti l’oggetto delle vicende si sviluppi su un doppio binario, da un lato quello di rivivere l’esperienza del primo transgender e dall’altro quello di far spiccare il senso e la forza di un amore così forte da andare oltre i confini della normalità ovvero quello di una moglie che vuole talmente tanto il bene di quel marito da essere disposta a perfino a perderlo, e quindi sia di indubbio valore, lo stile adottato impedisce di farsi catturare. Le atmosfere sono cupe e si mixano ad un linguaggio eccessivamente descrittivo, freddo, impersonale. In tutta la prima parte il libro non decolla, fatica ad andare avanti, singhiozza. Soltanto nella seconda, quando cioè la storia prende veramente il via ed emozioni e sentimenti dovrebbero avere spazio totale, allora si ha un minimo di accelerare nello scorrere delle battute, un defluire, un procedere che però è pur sempre fiacco, farraginoso.
Non solo, l’intento di Ebershoff era chiaramente quello di indagare su una circostanza, approfondire un argomento attuale ed ancora oggi discusso, ma di fatto il presente volume è un tomo che si sviluppa, si incentra ed è mandato avanti da Greta/Gerde e sul suo modo di affrontare la condizione del marito e di aiutarlo a trasformarsi nel suo vero se stesso, nell’affiancarlo in quella che è la sua lotta interiore per riuscire a capire ciò che veramente vuol essere, chi veramente è, nonché sulla solitudine della stessa Waud, sul suo bisogno di “tornare a casa” desiderio che mai avrebbe pensato di provare.
Si è quindi davanti a un duplice dolore: quello di una donna tormentata per natura perché nata nel corpo di un uomo e quello di un’altra insito per carattere nel suo essere poiché da sempre caratterizzata da quella voglia di fuggire da tutto per andare verso non si sa cosa.
Lo scrittore inoltre, per descrivere le decisioni che hanno animato Gerda, ricorre a continui flashback nonché salti temporali che, invece di avvalorare il contenuto del narrato, non fanno altro che aumentarne la confusione. L’impostazione impedisce, nonostante le continue e ampie riflessioni, di comprendere appieno quelle scelte, di coglierne le sfumature tanto che anche la stessa storia di Lili Elbe risulta intangibile, irreale, eccessivamente rielaborata e poco biografata.
In conclusione, buono il proposito ma troppe le perplessità.

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Lettura consigliata
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no = per chi ama i testi di sostanza, ben argomentati e lineari.
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