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Lenta morte
Si dice che tre indizi costituiscano una prova; in questo caso gli indizi sono solo due, ma credo siano sufficienti per esprimere una valutazione, non onnicomprensiva ovviamente, ma quanto meno minimamente oggettiva e motivata. La coppia di elementi in questione sono due libri di Don Delillo, “Cosmopolis” e”Rumore bianco”, quest’ultimo, al pari di “Underworld”, considerato dalla critica il suo romanzo migliore. Probabilmente l’ultimo che mi darò la pena di leggere.
La trama è sintetizzabile in poche righe al contrario del libro che consta di un profluvio di momenti, battute, riflessioni che ne rallentano inesorabilmente il ritmo, straniando la comprensione del lettore più attento. Sulla pacifica cittadina di Blacksmith in cui Jack Gladney, professore di studi hitleriani all’università locale, vive si abbatte un cataclisma tossico: una nube mefitica, sprigionatasi a seguito di un incidente ferroviario, si leva sulla città costringendo i cittadini alla fuga. Durante l’esodo forzato Mr Gladney viene infettato da alcune sostanze piovute dalla nube. Poche ore dopo, a seguito di uno scanning, gli viene comunicata la notizia che, a causa del contatto avuto con la nube, è destinato a morire. Non si sa quando, né come. Lui dovrà morire.
È da questo momento in poi che entra in scena la vera protagonista del romanzo, la morte, capace di instillare una profonda angoscia nell’animo di Jack Gladney in maniera inversamente proporzionale alla sua lontananza nel tempo. Più è lontana e più spaventa e la presa di coscienza di ciò paralizza non solo Gladney ma anche la moglie Babette la quale nulla sa del responso medico-tecnologico ricevuto dal marito e che, al pari di lui, si ritrova invischiata nel timore della sua morte, ma soprattutto della dipartita del marito. Babette è profondamente terrorizzata dalla sola idea che possa sopravvivere al coniuge; preferirebbe lasciare questo mondo prima di lui. Entrambi all’oscuro per lungo tempo delle manovre e dai patimenti dell’altro, cercano una soluzione: medico-sessuale per quanto concerne Babette che trova rifugio in un medicinale sperimentale non in commercio e nel proprio degrado morale e disperatamente e vanamente filosofico-intellettuale per Jack Gladney.
Ineccepibile la proprietà di linguaggio sfoggiata da Delillo ed estremamente interessante la tematica trattata che, in qualche occasione di limpida dialettica, stimola la riflessione facendo ragionare il lettore sul rapporto strettissimo tra vita e morte e su come la morte altrui possa costituire un nuovo slancio vitale per la propria esistenza in un ottica inevitabilmente brutale e spietatamente cinica. Ma al di là di preziosi frammenti DeLillo si perde in sofismi e lambiccamenti che spesso risultano ermetici, in dialoghi che oscillano tra futilità domestica e logiche contorte caratterizzati da una sostanziale discrasia quasi costante tra le battute. Più che un confronto costituito dallo schema domanda-risposta o da battute sequenziali e tra loro interrelate, DeLillo offre al lettore scambi di battute slegate ed autonome come se il personaggio coinvolto seguisse, senza prestare attenzione all’interlocutore, il proprio flusso di pensiero. Nel complesso sembra peccare di filosofica superbia che non contribuisce a suscitare empatia nel lettore.
L’unica figura divertente ed empatica è il figlio di Jack Gladney, dotato di una capacità dialettica irresistibile. Sicuramente il personaggio più riuscito.
FM
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Commenti
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Dalla tua bella recensione comprendo lo scarso entusiasmo verso questo libro che in parte condivido.
A me quest'opera è parsa interessante fin quasi alla fine; parte finale, convulsa e scomposta, che non mi è piaciuta (tanto che non ricordo più la conclusione). La rimozione della morte, tipica della nostra società, non può che portare all'ossessione, in quanto essa è una realtà ineliminabile. E questo aspetto, secondo me, è ben rappresentato nel romanzo.