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Chi è l'untore?
Romanzo profondamente doloroso, dalla prosa lineare e dal contenuto complesso, a più livelli interpretativi, con al centro un'epidemia di poliomielite scoppiata in una torrida estate degli anni Quaranta nella cittadina americana di Newark.
Se i venti di guerra che soffiano dall'Europa e dal Pacifico sono accompagnati da uno spirito patriottico che tiene alto il morale della popolazione, la polio, invece, è un nemico invisibile che prostra ed umilia i sommersi e i salvati, costretti, questi ultimi, ad assistere impotenti al triste spettacolo di giovani vite falcidiate o rovinate per sempre dalla deformità fisica.
Figura tragica il protagonista, Bucky Cantor, giovane di belle speranze, animatore di un campo giochi del quartiere ebraico, energico e carismatico come i saldi principi che regolano da sempre la sua esistenza.
Questa, in effetti, è la storia più triste che possa essere raccontata: la progressiva devastazione di un essere umano, la fine inesorabile, per implosione, della sua gioia di vivere.
A chi dare la colpa dell'epidemia? Al caldo, alle mosche, al latte, all'acqua? Chi è l'untore? Gli italiani, gli ebrei, lo scemo del quartiere? Perché Dio, se esiste, ha permesso tutto questo?
Non sembra esserci una verità assoluta, per quanto si annaspi nella sua ricerca, e il timore della contaminazione è talmente percettibile che a tratti si avverte l'esigenza di interrompere la lettura per tornare alla realtà e scrollarsi di dosso un senso di venefica oppressione.
Le domande, però, restano, e la parola che dà il titolo al romanzo, Nemesi, è come la tessera di un mosaico - una delle tante - che va tristemente al suo posto, mentre si pensa a Kafka, altro scrittore ebreo che del senso di inadeguatezza e colpa fece la sua cifra espressiva.
Ma in questo caso la discesa agli inferi del personaggio principale è progressiva, e i rivolgimenti psicologici che ne mutano a poco a poco l'atteggiamento, determinandone la metamorfosi, si direbbe che portino già in se stessi il germe della condanna.
Emozionante la scena in flashback del finale, con la descrizione di un'impeccabile performance atletica che restituisce dignità ad un corpo e ad uno spirito offesi dalla crudeltà del destino: un accorato e nostalgico inno alla vita.
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