Dettagli Recensione
Nient'altro che carne viva..
Marie Young ha soltanto diciassette anni quando rimane incinta della piccola Ana e meno di diciotto quando inizia a prestare la sua manodopera come cameriera. Il lavoro è il suo unico punto di riferimento, il solo caposaldo di una vita ai limiti caratterizzata da dissoluzione e perdizione.
Dal momento in cui la giovane entra nel Bistrot, nel ristorante o comunque in uno dei luoghi in cui è assunta scrupolosità ed efficienza sono i suoi mantra; il servizio deve essere impeccabile, nessuno si deve lamentare del suo operato, l’entità della mancia è la prova tangibile del suo rendimento della serata. Ma non appena il turno finisce niente ha più valore: droga, sesso casuale e autolesionismo si sostituiscono a quella giornata di ordinaria falsa perfezione.
Probabilmente troppo giovane quando è divenuta madre Marie ha visto scorrere la sua vita su un sentiero diverso da quello che si era prefissata, da studentessa modello in una famiglia “per bene” ( o forse sarebbe meglio dire “per benista”) si è ritrovata sposata, con una piccola da crescere e un’esistenza che faticava a riconoscere come sua. Per quanto abbia voluto e voglia bene a sua figlia al compimento del terzo anno di età di quest’ultima se ne è andata e nonostante il marito abbia tollerato i suoi tradimenti, il suo atteggiamento distruttivo alla fine non ha avuto altra scelta se non quella di chiedere il divorzio. E’ sempre stato un bravo ragazzo il padre della sua bambina, quella sbagliata – a suo dire – era lei. Come non capirlo dunque quando, dopo l’ennesima scoperta dell’infedeltà della coniuge, non ha più retto decidendo così di separarsi da lei e di salvaguardare così sua figlia?
Ma facciamo un passo indietro, chi era Marie? La giovane, intelligente, longilinea e minuta tormentata protagonista di questo romanzo d’esordio di Merrit Tierce, era una studentessa modello destinata a Yale quando parte con un gruppo religioso per fare volontariato in Messico per ottenere quei crediti extra necessari indispensabili per ogni preppy che ambisca a un’università Ivy League. Una notte e la sua intera vita cambia. Il passo verso l’autodistruzione è stato estremamente rapido: da allora non si è più sentita così completa, sicura, capita.
Chi è adesso Marie? Un attimo significativo come un’intera realtà. Marie smette di sentire il suo corpo. La sua vita di ragazza diventa un continuo e ripetuto tentativo di cercare di sentire qualcosa, qualsiasi cosa; anche il dolore. Pur di ritrovarsi in quel corpo tanto odiato è disposta a tutto: si taglia, si brucia, si cauterizza, si incide la carne viva con un coltello da bistecca, si droga, beve, consegna più e più volte quell’involucro che la contiene a uomini che di lei non hanno conto, che la usano senza pudore, che la penetrano senza scrupoli trattandola come una cosa, come un mero ammasso di carne e ossa che camminano. E nonostante questo ella continua a non sentire niente. Più si abbruttisce e punisce e più si è estranea. La cameriera perfetta che odia il suo lavoro e la sua vita, la donna oggetto che tutti si sentono in diritto di usare e gettare via a proprio piacimento non è altro che carne, carne fresca da assaporare e carne stantia, avanzata da gettare via.
La solitudine e l’annientamento di questa donna sono raccontati dall’autrice con un linguaggio volutamente crudo, diretto e volgare e dunque tale da diventare quasi insopportabile per chi legge. L’idea è quella di accertarsi che quest’ultimo mantenga un disgustato distacco nei confronti della bruttezza priva di speranza a cui la ragazza si è condannata ma nel concreto l’effetto di questo stile è quello di avvicinare il lettore a quell’universo distruttivo tanto che è costretto a chiedersi il perché di quegli atteggiamenti. Viene spontaneo “tendere una mano” verso questa madre per tirarla fuori da quei parcheggi abbandonati, da quella maledetta droga che le sta facendo perdere sempre più peso e consapevolezza, per sottrarla alle mani di quegli uomini incuranti del suo essere persona e riavvicinarla a ciò da cui è scappata e da cui cerca accuratamente di non pensare anestetizzando la mente con tutto quel che ha a disposizione.
Narrato, volontariamente in modo disordinato, sotto la forma di un diario destinato alla figlia con chiaro obiettivo di spiegarle il perché di quell’atteggiamento e di quell’assenza materna, ed originariamente pubblicato con il titolo “Love me back: amami, ricambia il mio amore”; l’opera è raccontata con grande lucidità dall’autrice, senza traccia alcuna di vittimismo, e non è altro che un tentativo incessante di trovare perdono in primo luogo da se stessa, di sentirsi di nuovo viva e intera, di amarsi ma soprattutto di permettersi il lusso di provare amore e di meritarsi quello donato da Ana.
Un elaborato forte, che si conclude in meno di due giorni ma che lascia sinceramente il segno.