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“Nessuno può sfuggire al proprio destino”
Ho letto il libro sulla scia delle recensioni positive ma soprattutto per il desiderio di confrontarlo con “La famiglia Moskat”, del fratello dello scrittore.
Dal confronto, diciamolo subito, esce vincente il secondo per intensità e spessore, ma anche “La famiglia Karnowski” ha qualcosa da dire, e la dice piuttosto bene.
La storia dell'Ebraismo in Occidente con le sue varie ramificazioni e le sue luci ed ombre è spiegata attraverso le vicende dei personaggi, parallelamente al fenomeno dell'antisemitismo, seguito nella sua drammatica ascesa in maniera volutamente asettica e senza indugiare nell'autocommiserazione.
La parola “nazista” non è mai pronunciata - si parla piuttosto di “uomini in stivali” - con l'intenzione, forse, di non contaminare pagine in cui si fa spesso riferimento alla dignità di testi sacri e filosofici, offesa e minacciata emblematicamente dai topi.
L'immagine stereotipata dell'ebreo ambulante con la bisaccia risulta essere, alla fine, universale e molto vicina a quella di qualsiasi essere umano (“Nessuno può sfuggire al proprio destino...”), grazie all'empatia che lo scrittore riesce ad instaurare tra personaggi e lettore.
Questo è, a mio avviso, il merito principale del romanzo, che ha per limite una certa frettolosità in alcuni passaggi, soprattutto negli ultimi capitoli, oltre al fatto di ingenerare un po' di confusione in chi legge col susseguirsi delle generazioni (inconveniente peraltro frequente nelle saghe familiari).
Notevole il finale, che resta impresso nella memoria con l'intensità e la grazia di un bel piano sequenza cinematografico.
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Commenti
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Condivido la valutazione. La scrittura del fratello Premio Nobel è di levatura nettamente superiore. Questo libro mi pare un po' carico, con una prosa 'pesante'. Da quando l'ho letto, più ci penso più diminuisce il valore che gli attribuisco. Per i grandi libri succede l'inverso.
I capolavori, per esempio, non si dimenticano.
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