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UNA VOCE LONTANA
«L’odio non era un fatto personale, ma strutturale. Le persone non avevano più un volto, degli occhi, un nome e un lavoro….Persone che si conoscevano da una vita, dimenticavano tutto ciò che sapevano le une della altre. Rimaneva solo la cosiddetta nazionalità» Sono queste le parole con cui Masha, la giovane protagonista del romanzo d’esordio autobiografico di Olga Grjasnova, classe 1984, descrive il clima di violenza di una città, Baku, capitale dell’Azerbaigian, devastata dalla guerra civile fra azeri ed armeni.
Questa deprivazione del sentirsi persona in nome di un’astratta appartenenza a un concetto di popolo Masha la sente dentro di sé e attorno a sé, nelle persone che disperatamente ama o vorrebbe amare: è come un vincolo di parentela da cui vorrebbe liberarsi ma che la attrae a sé, come una voce che viene da lontano, dai tempi dell’Olocausto. Masha infatti è d’origine ebrea e nel suo racconto in prima persona si avverte il senso di colpa d’essere una sopravvissuta ai campi di concentramento che caratterizza molti scrittori Yiddish. La persecuzione continua a gravare sulle generazioni di figli e nipote delle vittime dell’Olocausto e a gravare come un marchio d’infamia sulle loro esistenze: l’identità perduta non può essere restituita né dalla rinata Germania dove la protagonista si è trasferita con la famiglia né Israele, dove lei si passa un breve periodo di tempo per riscoprire le proprie radici. L’universo di Masha è composto da esuli come lei, giovani fragili in perenne fuga da un luogo all’altro e da un amore all’altro o da anime sradicate, come suo padre che sognava di andare nello spazio, il cui unico conforto è la contemplazione dai tetti delle costellazioni. “Tutti i russi amano le betulle” è la testimonianza di un’altra Europa, un’Europa ancora prigioniera dei propri incubi.
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