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A chi gatto, a chi topo
“Secondo lui, l'essenza di tali mariti consisteva nell'essere, diciamo così, 'eterni mariti', o, per meglio dire, nell'essere nella vita soltanto mariti e nient'altro. Un individuo simile nasce e si sviluppa solamente per ammogliarsi e, una volta ammogliato, per trasformarsi unicamente in un'appendice della moglie, anche quand'egli abbia una personalità sua, ben determinata. La proprietà essenziale di un simile marito è quel certo ornamento. Egli non può non essere cornuto, così come il sole non può non risplendere, però non soltanto non ne sa mai nulla, ma non potrà mai saperlo per le leggi medesime della natura.”
Alla soglia dei quarant'anni, a Vel'caninov tocca misurarsi con l'idea che il tempo di godersi la vita sia finito.
Ne prende atto con la consapevolezza di essere di fronte ad una legge di natura: ad ognuno – anche a chi è, come lui, di piacente aspetto – tocca abbandonare una vita vissuta per le conquiste sessuali o per altri piaceri.
Se non fosse che, del tutto inaspettato, dinanzi alla porta del suo appartamento si presenta uno stranito Pavel Pavlovic: un uomo insignificante, che Vel'caninov ben ricorda per la sola ragione di aver fatto di sua moglie una delle proprie amanti; e viceversa, visto che anche lei, Natalia Stefanovna, non disdegnava l'altrui compagnia. D'altronde come sarebbe potuto essere altrimenti? Pavel Pavlovic risponde perfettamente alla definizione dell' “eterno marito” (come Vel'caninov la declina), allo stesso modo in cui l'attraente Natalia Stefanovna coincide pienamente con l'idea di moglie di un “eterno marito”.
Il problema è, dunque, uno solo: che ci fa a Pietroburgo, proveniente dal lontano paese di T., il povero Pavel Pavlovic? E chi è la bambina che lo accompagna e che lui tratta in modo così scostante e vessatorio?
Un Dostoevskij “minore” (se è lecito dirlo di Dostoevskij), che ne “L'eterno marito” mette in scena una godibile variante del gioco del gatto col topo.
Un filo narrativo che perciò si districa tra due opposti registri: uno drammatico, l'altro più vicino alla commedia. Il primo non è che quel peculiare metodo di “scavo psicologico” nel quale lo scrittore russo è maestro (e che gli è valso la costruzione di personaggi letterari immortali); il secondo è da lui ottenuto potenziando lo sguardo ironico e cinico comunque sempre presente nelle sue opere.
Il Pavel Pavlovic che si presenta al protagonista della storia – l'elegante e mondano Vel'caninov – è un uomo distrutto dalla morte della moglie e che, perciò, sembra aver smarrito la sua naturale funzione di (eterno) marito. Non basta questo, tuttavia, né il suo presentarsi come un derelitto o il fatto che Vel'caninov lo maltratti nei modi più vari, ad evitare che le parti si invertano.
“Chi teme chi?” o “chi è di aiuto a chi?” ci si chiede, mentre si “devia” verso una serie di personaggi e situazioni sempre diverse; correndo nel frattempo verso quel finale che risponderà al dubbio rimasto sullo sfondo, ma mai scomparso: è necessariamente l'eterno marito un prototipo di ignaro cornuto, o forse il meschino Pavlovic ha fatto tutto ciò con un preciso intento?
A questo romanzo manca il “respiro” dei capolavori dostoevskijani, non certo quella capacità attrattiva che ogni opera del romanziere russo, in un modo o nell'altro, esercita sul lettore.
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Commento veramente bello.
Dell'Autore conosco solamente le opere considerate 'maggiori', e non riesco ad immaginarmi un Dostoevskij minore, come non saprei individuare un Mozart 'minore' .