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L'età dell'illusione
New York, 1870. Teatro dell’Opera. Newland Archer, giovane rampollo di una delle migliori famiglie della città, siede nel palco del circolo dei gentiluomini godendosi il duplice spettacolo che va in scena sotto i suoi occhi, quello del Faust sul palcoscenico e quello della facoltosa, elegante, vuota aristocrazia newyorkese che affolla i palchi e la platea, con le sue dame ingioiellate che agitano i ventagli e i suoi "azzimatissimi signori in panciotto bianco e fiore all’occhiello" (pag. 40). A un tratto la quiete si frantuma. Un gentiluomo punta il suo binocolo da teatro e sobbalza: nel palco dell’illustre famiglia Mingott, dove siede la giovane May Welland, promessa sposa di Newland, bionda, fresca e deliziosa come il piccolo bouchet di mughetti che stringe tra le mani guantate,la porta di apre e fa la sua apparizione una dama. È "una giovane donna snella" (pag. 41), con i capelli scuri e un abito e un’acconciatura irrimediabilmente fuori moda. Chi sarà mai? I bisbigli che riempiono il palco dei gentiluomini suggeriscono a Newland la risposta: è Ellena Olenska, cugina di May e pecora nera della famiglia Mingott, sposata a un conte polacco libertino, violento e dissipatore; ha lasciato il marito con una fuga a quanto si dice rocambolesca, scelta inaudita per la buona società americana del tempo, e si è rifugiata presso i suoi caritatevoli parenti, disposti a riaccogliere e sostenere la povera, sfortunata Ellen.
L’arrivo di una donna emancipata e fuori dagli schemi smuove le placide acque in cui naviga la buona società di New York, suscitando pettegolezzi e scandali, ma più di ogni altra cosa smuove l’animo e le convinzioni di Newland. Prossimo ad un matrimonio che soddisferà pienamente le aspettative della sua classe sociale, e dunque prossimo ad irrigidire la propria vita all’interno di uno schema già noto, che la tradizione e il rispetto delle consuetudini hanno tracciato per lui, il giovane subisce più di tutti gli altri il fascino trasgressivo e cosmopolita della contessa Olenska e attraverso lei impara ad osservare il mondo in cui è sempre vissuto con un "cannocchiale capovolto", da una prospettiva diversa ed esterna ad esso, scorgendone così gli errori, la vacua frivolezza, l’ipocrisia. Un mondo chiuso e abitato da pochi privilegiati, dominato da un rigido codice delle convenienze che nessuno mai sognerebbe di infrangere, un mondo che intrappola per sempre al proprio interno chi lo abita.
Nel disperato tentativo di sfuggire alla trappola un istante prima che essa si chiuda su di lui, Newland si lascia irretire dalla possibilità di una vita diversa e sconosciuta, credendo di essere pronto a dire addio per sempre a tutto ciò che conosce e che ha amato fino ad allora e senza rendersi conto che forse è già troppo tardi.
"L’età dell’innocenza" è un dipinto di Joshua Reynolds del 1785 che rappresenta una bambina seduta su un prato intenta ad osservare qualcosa in lontananza. È questa, sembra voler suggerire l’autrice, l’unica, vera “età dell’innocenza”. L’innocenza che apparentemente domina il romanzo a partire dal titolo stesso si rivela nel corso della narrazione artificiosa o illusoria. La presunta innocenza di May Welland, fidanzata di Newland, concretizza il concetto e può diventare, forse, chiave di lettura del romanzo: apparentemente candida, ingenua e inconsapevole di tutto, è in realtà più lucida e intuitiva dello stesso Newland. Persino il sistema sociale che è al centro della narrazione appare “innocente”, completamente autoreferenziale, volto alla salvaguardia dei sani e buoni valori del passato e del giusto ordine delle cose, ma infine si rivela una gelida macchina che schiaccia e fagocita chiunque tenti di sottrarsi ai suoi meccanismi.
Qualunque pretesa di innocenza al di là dell’infanzia è dunque un’illusione. "La natura umana nel suo stato di ignoranza", riflette Newland, "non è mai né franca né innocente, piena delle distorsioni e delle difese di una scaltrezza istintiva" (pag 79). Ed è forse a questa scaltrezza istintiva che è necessario affidarsi per guardare al di là delle mistificazioni sociali e cogliere il vero volto delle cose. Contro tali mistificazioni, contro i pregiudizi, il vuoto perbenismo di facciata, la ristrettezza di vedute che affliggono il mondo in cui è nata e cresciuta, l’autrice indirizza una critica sottile, acuta, penetrante. Edith Wharton fu una donna fuori dagli schemi, proprio come la sua Ellen Olenska: prima aspirante scrittrice all’interno di una società che imponeva alla figura femminile gli unici ruoli di moglie e madre, poi moglie infelice, infine divorziata, i limitati orizzonti di quel mondo non potevano che starle stretti. Allo stesso tempo, però, si percepisce un sottile vagheggiamento dell’eleganza, dell’armonia, della cura per le convenienze, del culto di valori come l’onestà negli affari e la moralità, che caratterizzavano la buona società newyorkese del suo tempo. Edith Wharton non condanna totalmente la società che è forse la vera protagonista del romanzo, descritta con uno stile elegante, preciso, forbito, ma sembra auspicare una società nuova, più libera, aperta ed equilibrata, non più oppressa "dall’invisibile divinità della forma", ma capace di conservare gli aspetti più meritevoli della vecchia New York. Una società capace di guardare il mondo attraverso quello stesso cannocchiale capovolto che per la prima volta apre a Newland prospettive completamente nuove. "Dopotutto, c’era del buono nella vecchia maniera. […] C’era del buono anche nel sistema nuovo" (pp. 312-313).
Le citazioni sono trattae da E. Wharton, L’età dell’innocenza, BUR Rizzoli, Milano, 2008
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