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I vostri padri, dove sono? E i profeti, vivono forse per sempre? 2015-10-02 14:15:35 Maso
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Maso Opinione inserita da Maso    02 Ottobre, 2015
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No, la pappa non è pronta

Solo per imbastire un episodio minimo di “estetica del contrasto”, decido con dispetto di utilizzare la complessità per discutere di quanto sia frequente trovare la semplicità nel ruolo di tramite per giungere alla complessità stessa. Complico la faccenda solo per affermare quanto non sia assolutamente necessario complicare le faccende per portare alla luce qualcosa di complesso. Più che di un dispetto o di una bizzarria gratuita si tratta di un espediente argomentativo che il sottoscritto adotta per fare un po’ di chiarezza e dipanare una consistente cortina di nebbia ideologica. La complessità dichiaratamente affermata con cui ho intenzione di iniziare è, di fatto, un accademismo tanto stucchevole quanto necessitante del suscritto prodromo. Ho pensato, infatti, al pensiero eracliteo. Mi ci sono voluti giorni di raffreddamento, dopo aver letto questo romanzo in un paio d’ore, per arrivare ad un ragionamento che potesse dirsi tale, e la punta di quest’ultimo è rappresentata da quel passo della filosofia di Eraclito che critica il pitagorismo affermando che la reale costituzione di ciascuna cosa «ha l’abitudine di nascondersi», che, quindi, non tutto si mostra in superficie per quello che è nella sua intima trama di rapporti. Questo romanzo di Dave Eggers, come sostengo, mostra di avere questo genere di caratteristiche. Se la superficie mostra un romanzetto piuttosto semplice, da ogni punto di vista di carattere formale, l’interno è invece variegato da un importante intreccio di tematiche capaci di stimolare la riflessione. Banalizzando all’estremo, Eraclito potrebbe essere stato uno tra i primi a sostenere, sebbene in termini ben più elevati, che l’abito non fa il monaco.
Il monaco in questione, davvero, non lascia trasparire niente dalle fibre del suo saio. Un’edizione Mondadori costosa oltre ogni limite, se rapportata al numero di pagine, è l’unica rappresentante fisica di un grumo di problematiche attualissime che non solo non dovrebbero essere pagate come un cristallo di Boemia, ma che andrebbero divulgate a metà prezzo considerandone il valore socio-culturale e le riflessioni che ognuno potrebbe trarne.
E, come ogni ragionamento che possa definirsi edificante, tutto parte dalla necessità impellente di trovare risposte a questioni che ci si pone. Sono quelle che ci poniamo tutti, alla fine, ad essere pronunciate per noi dalla bocca di Thomas. Una trentina d’anni, un soggetto comune, un altro everyman che naviga e che si dibatte tra i flutti della società americana, nei suoi più monotoni recessi. Thomas, così inconcusso, così puerile e bisognoso di aiuto, rapisce sette persone. Una dopo l’altra rapisce, più che delle persone, degli automi che avranno la sola utilità di risolvere i più intimi e socchiusi conflitti vitali di Thomas, con se stesso, col passato, col mondo a venire. In una visione di puro utilitarismo, questo ragazzo è in cerca del proprio immenso faro di Alessandria. Tratta i grandi temi del nostro tempo nelle modalità spicciole, genuine e disinformate dell’uomo comune che ha impiegato molto tempo a strutturare una rete logica di connessioni e opinioni sulle cose, una rete che non sempre regge al cospetto della competenza differenziata di ognuno dei soggetti rapiti. Rapisce anche la propria madre, colto da un’accecante bisogno di liberarsi in recriminazioni, pretese e ricordi troppo sfumati perché possano essere veritieri.
Ma nell’apeiron, nell’indeterminatezza e nell’amara selva di domande e risposte si cela il punto nodale che giunge in un grande crescendo. Thomas spiattella la sua domanda più importante su tutta la sequela di discorsi vani che i rapiti sono stati costretti a pronunciare, e lo fa allo stesso modo di un bambino che domanda alla madre perché non può giocare ancora coi videogiochi. E’ lagnoso, è il deboscio, è la vittima, è quello che fa a pezzi la propria fedina penale per chiedere alle generazioni passate per quale motivo esse non abbiano lasciato ideali abbastanza forti alle nuove generazioni. Il mancato cameratismo, il mancato senso di comunione nell’anelito verso un’ideale collettivo, universale, è ciò che Thomas vorrebbe addurre come elemento di giustificazione alla palese degradazione che investe l’uomo e i suoi valori apparentemente più saldi. Per Thomas sono i grandi avvicendamenti globali, le grandi cause, la grandeur e la pompa magna di un grande obiettivo da incensare, glorificare e portare in trionfo a rappresentare il necessario collante per il raggiungimento di un senso pieno della vita e del rapporto con gli altri. E’ tramite questa mancanza, e con l’accusa di essere stato privato, assieme alla propria generazione, di tali eroiche opportunità che Thomas giustifica il fatto di impersonare la mediocrità. Una vita mediocre, una vita tediosa, annoiata e annoiante. Trent’anni di sopportazione del nulla più assoluto, un rapimento plurimo e il più grande, pretenzioso abbaglio che si potesse prendere. Thomas è quello che accusa (e mi trova d’accordo) le forze dell’ordine statunitensi di abuso di potere, di violenza gratuita, ma è anche quello che sostiene implicitamente che i massacri mondiali della prima metà del Novecento siano stati un’imperdibile occasione per rinfocolare il proprio sentimento di empatia verso il flusso vitale che muove le masse. Ma è anche quello che quelle guerre, se si fosse trovato veramente a doverle combatterle, le avrebbe fuggite. Thomas è un’architettura di insoddisfazione, è un’insieme di parole posticce che incessantemente si contraddicono. E’ pusillanime nella misura in cui è abile nello scarico delle responsabilità.
Per questo, Thomas, è un personaggio straordinario. E’ eccellentemente costruito a immagine dell’uomo medio. Rabbioso, presuntuoso, innocente per colpevolezza altrui. Sempre pronto a puntare il dito nell’accusa tanto quanto disinteressato al perseguimento di risposte per se stesso che vengano da se stesso. Thomas rappresenta davvero una generazione di annoiati che rimangono in attesa affinchè qualcuno gli prepari la pappa e li imbocchi imitando l’aeroplanino. Inutile dire che, nella mia opinione, un interventista che si definisca tale non aspetta che qualcun altro gli fabbrichi un ideale. Se lo crea.
Ma Thomas non cerca un’ideale. E’ troppo occupato a lamentarsi del fatto che nessuno glieli abbia lasciati per accorgersi del fatto che le cause comuni non solo non sono scomparse, ma che addirittura sono molto più cruciali, ad oggi, di qualsiasi altre nella storia dell’uomo. Non è sufficiente sapere che il nostro pianeta si avvia al più completo collasso, assieme a tutte le risorse per il mantenimento della vita umana? A me sembra di si, e mi sembra che ogni diatriba umana sia, al confronto, un semplice vociare sommesso.
Il personaggio di questo romanzo di Dave Eggers è il romanzo stesso, ed è una persona, ed è un milione di persone. E’ l’eserctito dei lamentevoli, che bisogna accudire, rassicurare e lasciarsi alle spalle. È, ahinoi, quella retroguardia umana impegnata ad accusare gli altri di fare quello che loro stessi stanno facendo; è la falange che si convince di poter risolvere le problematiche della civiltà ottenebrando e distraendo le menti con quegli stessi, mastodontici specchietti per le allodole utilizzati una volta di troppo nel corso della storia più e meno recente. La soluzione, siamo spiacenti, non è così semplice. Spazzare la polvere sotto il tappeto non significa pulire.

Sono andato forse troppo in là, anche se tanto altro ci sarebbe da dire. Da un non detto che è solo accennato, una panoplia traboccante che ci narra senza pietà.
Chiedo scusa per le tinte fosche. Consiglio la lettura.

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