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Tzaddik per sempre
Fin dalle origini della tradizione chassidica, il tzaddik era il capo della comunità, un uomo particolarmente devoto, sapiente e sensibile, che la gente seguiva con fiducia e a lui si rivolgeva per ogni problema. I chassidim riconoscevano nello tzaddik un vincolo sovrumano tra loro e Dio.
Come spesso succede quando i movimenti spontanei, guidati da uomini particolarmente carismatici, si cristallizzano e diventano istituzioni, anche nel chassidismo ci furono abusi. La carica di tzaddik divenne spesso ereditaria, molti tzaddikim vivevano come monarchi orientali, le comunità divennero clan chiusi e dogmatici che, anche per il tramite di barbe, riccioli e vestiti scuri con le frange, si illudevano di fermare il tempo alla Polonia del diciottesimo secolo.
Ogni aspetto estraneo allo studio del Talmud era un potenziale pericolo e si composero liste di cose lecite e di cose proibite, molti libri vennero messi al bando e si diffuse la pratica dei matrimoni combinati fin dalla più tenera età. Studiare le materie ebraiche in lingua ebraica anziché in yiddish era considerato un peccato inaudito, perché l’ebraico era la Lingua Santa e usarlo normalmente in classe era una profanazione del Nome di Dio.
Quando il movimento sionista iniziò a propugnare uno Stato ebraico in Palestina, trovò nelle comunità chassidiche uno strenuo avversario, perché non si ammetteva una patria ebraica che non avesse al centro la Torah, non doveva quindi esserci una patria ebraica fino all’avvento del Messia.
Tutto questo può essere classificato come fanatismo? Certamente. Eppure anche un ebreo liberale, pur non condividendo affatto queste scelte e questi comportamenti, può affermare che “il fanatismo d’uomini dello stampo del rabbino Saunders ci ha conservati in vita durante duemila anni di esilio”. La chiave sta nella precisazione: uomini “dello stampo di”, non uomini qualunque.
Le ultime, sconvolgenti quindici pagine di “Danny l’eletto” gettano una luce nuova su tutto il romanzo e rivelano che ci può essere un’infinita tenerezza nella dura roccia che protegge e custodisce le radici della pianta cresciuta con fatica al suo interno. Se ci si ferma alla superficie, si sperimenta solo il lato duro, ruvido, sgradevole, e anche violento, di uno stile di vita incomprensibile e inaccettabile.
Ma scavando in profondità (e per questo occorre che ci siano delle profondità, quindi l’integralismo non è per tutti) si può scoprire un sorprendente ed inesauribile pozzo di sensibilità, comprensione, amore ed empatia. Si può scoprire che dietro veti, bandi e proibizioni si nasconde la consapevolezza che essi saranno tutti abbattuti e che è ineluttabile che le regole formali, le prescrizioni, i codici siano prima trasgrediti e poi abbandonati. Nel frattempo, con severità, disciplina e rigore ben oltre ogni limite comprensibile, avranno forgiato un’anima, avranno formato un uomo.
Quest’uomo potrà anche tagliarsi i riccioli, la barba, smettere gli abiti scuri e le frange, ma rimarrà per sempre profondamente un tzaddik, un giusto, un sapiente, un caritatevole, un uomo che anche nella confusione delle strade del mondo non perderà mai la propria.
“Danny l’eletto” ci parla dell’amicizia di due ragazzi ebrei newyorkesi, alla fine della seconda guerra mondiale. Reuven è figlio del professor Malter, un ebreo colto e di larghe vedute, sostenitore e promotore del sionismo. Daniel invece è figlio del rabbino Saunders, uno tzaddik di grande carisma, stimato, e rispettato da tutti.
Danny, destinato ad ereditare la carica del padre, è un ragazzo eccezionalmente intelligente, curioso e sensibile. Divora di nascosto letture “proibite”, stringe amicizie pericolose eppure non osa mettere in discussione né l’autorità del padre, né il severo (forse anche crudele) sistema di vita entro cui è cresciuto.
Non si tratta solo di una grande romanzo sull’amicizia: il libro ci parla anche di padri e di figli, di silenzi e di incomunicabilità, di parole dette in silenzio, di canali di comunicazione incredibilmente tortuosi, che devono farsi strada tra le complessità dell’anima.
E’ un libro che invita anche a riflettere, noi apparentemente liberi, liberali, laicissimi, aperti e democratici. Ci invita a non fermarci all’aspetto sgradevole e aspro della roccia, a scavare in profondità, oltre le idee e i comportamenti che ci sembrano incomprensibili, arcaici, ottusi e bigotti. Troppo facile denigrarli, rifiutarli, rispondere al fanatismo con altrettanto fanatica superficialità. L’istinto è quello, ed è naturale. Infatti, anche l’amicizia tra Reuven e Danny nasce da uno scontro, dall’odio persino. Ma poi i due ragazzi fanno leva sulle proprie qualità e da quella contrapposizione nasce una grande amicizia, un legame solido, un ponte tra due mondi apparentemente incomunicabili.
Non dovremmo mai dimenticare che il dialogo è sempre possibile. A due condizioni: che si abbia la voglia e la capacità di scavare, e che sotto la superficie ci sia qualcosa.
Crescere un figlio nel dolore e nel sacrificio, imporre a sé e agli altri privazioni e sofferenze, continueranno a sembrarci un prezzo inaccettabile per forgiare un carattere. Ma chi vive in un mondo protetto da barriere sa e si aspetta che esse siano superate prima o poi, sa che quel mondo si dissolverà e si mescolerà con altri mondi.
Forse è proprio su questo che si fonda il dialogo: la capacità di guardare avanti, pur senza dimenticare la validità delle proprie ragioni e restando intimamente fedeli alle proprie radici
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Commenti
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Trovo la tua recensione bellissima e molto profonda. Io sono un ammiratore di Potok, scrittore straordinario.
Questo libro è veramente una lezione contro la superficialità dei giudizi stereotipati, 'alla moda' .
Il metodo del silenzio usato verso Danny non era 'per tutti' (ad esempio, non per suo fratello), ma perché lui si era dimostrato insensibile, e la sua sofferenza doveva portarlo ad avvertire il dolore che c'è nel mondo.
Ti segnalo, probabilmente già lo sai, che puoi trovare il seguito di questo libro in "La scelta di Reuven", opera non inferiore a quella che hai letto.
Ottimo romanzo, e soprattutto grande scrittore.
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