Dettagli Recensione
ASPETTATIVE DELUSE
“La più grande scrittrice vivente di lingua inglese”
“Philip Roth ha ragione. Edna O'Brien è la più grande e Ragazze di campagna è un libro bellissimo, bellissimo, bellissimo.”
“Ragazze di campagna ha un fascino senza trucchi, un'originalità spontanea”
“Un manuale di anatomia dell'anima. Ogni parola, ogni aggettivo, ogni frase sono così essenziali che non riesci mai a distrarti neanche per due righe”
“O'Brien è stata la grande innovatrice dell'immaginario irlandese”
“Uno scandaloso puzzle di desideri femminili”
“Un tesoro di potenza, intelligenza e ironia”
“Tra i maggiori geni della nostra generazione”
Normalmente non mi accingo a leggere un libro “lusingata” dai commenti sul retro della copertina.
Lo faccio per non crearmi aspettative esagerate, perchè diciamocelo, sulle copertine vengono, ovviamente, messi solo i commenti più entusiastici.
Addirittura questa Edna O'Brien è definita niente meno che la più grande scrittrice vivente di lingua inglese e un genio.
Ovviamente le aspettative che si sono create nella mia mente erano altissime.
E sono puntualmente andate deluse.
Questo libro non mi ha lasciato nulla. Nulla.
Non ha aggiunto niente alla mia vita, non mi ha lasciato passi o tratti da ricordare.
Prima di parlarvi della trama, che è molto semplice e lineare devo fare alcune premesse.
Non si può capire questo libro senza conoscere un minimo il background di questa signora irlandese.
Questo libro è stato scritto nel 1960 ed è ambientato nelle campagne irlandesi, pregne di fanatismo religioso, di povertà, di ignoranza come di paesaggi meravigliosi.
Essere donna in un periodo del genere non deve essere stato facile e forse la distanza tra la vita di oggi e quella di allora non mi ha fatto comprendere questo “capolavoro”.
Forse...anche se nelle descrizioni le situazioni e la cultura di quel tempo non mi sembrano poi così diverse dalla vita di campagna che sento raccontare dai miei genitori.
Caitleen nel 1960 è una ragazzina molto povera, con una padre alcolizzato e violento, una madre rassegnata alla sua vita di negazione, ha un'amica Baba, che poi tanto amica non mi è mai sembrata visto che la trattava malissimo, la umiliava in tutti i modi non solo alla scuola di paese, ma per tutto lo svolgersi del libro, che copre un arco di alcuni anni.
La famiglia di Cait ha una fattoria che ormai è in rovina, portata avanti da un ragazzone che è praticamente l'unico (oltre alla madre) che si prende cura di lei.
Un pomeriggio, dopo svariati giorni di pellegrinaggio alle varie osterie dei dintorni, il padre di Cait torna a casa ubriaco e nuovamente picchia la moglie, che decide così di andarsene e tornare per un po' dalla sua famiglia di origine, senza portare la figlia (che forse avrebbe dovuto raggiungerla più tardi... ma non è dato a sapersi...) senonché ha un incidente e muore.
Cait viene a sapere il tutto la sera a casa dell'amica Baba (che ha anche lei una famiglia piuttosto disastrata, una madre del tutto indifferente che le fa fare tutto quello che vuole e vive solo rimpiangendo la sua bellezza ormai sfiorita, e bevendo, e un padre talmente indaffarato da non esserci mai).
Nel frattempo è venuta a sapere che ha vinto una borsa di studio per un prestigioso collegio di religiose e dopo un'estate passata in una sorta di apatia parte insieme a Baba per il collegio.
Nel frattempo il padre di Cait smette di bere e cerca di riprendere in mano la fattoria, ma è troppo tardi e deve venderla al proprietario dell'emporio di paese, caro amico di famiglia (e probabilmente pure l'amante della defunta madre di Cait).
Cait ha una sorta di repulsione verso suo padre, chiaramente lo incolpa della morte della madre, ma ogni tentativo dell'uomo di riavvicinarsi alla figlia è da lei rifiutato, tanto da praticamente dimenticarsi dell'uomo per tutto il tempo che starà via, disinteressandosene proprio.
Il collegio si rivela un vero carcere, un posto pessimo dove le ragazze sono malnutrite, umiliate e represse (mi ricorda Ludlow di Jane Eyre, peccato che la Bronte come stile di narrazione è proprio su un altro pianeta) ma non mi dilungherò troppo in questo.
Cait e Baba sono stufe e si fanno espellere dopo 3 anni e si trasferiscono da sole a Dublino.
Cait farà la commessa e Baba non si è capito bene cosa (credo nulla, se non la mantenuta).
Le ragazze in città sono entusiaste della vita piena e varia, cercano incontri con ragazzi del posto per divertirsi (per poi fini squallidamente con due ricchi cinquantenni) e Cait alla fine instaura una relazione clandestina con un uomo del suo paese che già prima che partisse per il collegio delle monache l'aveva “insidiata” pur in modo piuttosto discreto: tale Mr Gentleman, oriundo francese facoltoso, danaroso e con moglie esaurita “corteggia” già la ragazzina quando lei ha 14 anni (e lui sembra sui 50) e va avanti fino a quando lei è in città e ne ha circa 18.
Il lieto fine? Non c'è perchè non c'è nemmeno una fine.
Non esiste finale, la narrazione si interrompe e basta.
Più che per un espediente letterario per lasciare lo spazio aperto agli altri due volumi della “trilogia”.
Lo stile narrativo è asciutto, essenziale e questa cosa la trovo apprezzabile. Non molto invece tutta la storia che ho trovato molto reale, molto umana, molto cruda (e probabilmente molto autobiografica) ma che non mi ha lasciato nulla.
Questa Cait (e questa Baba) pur essendo diverse si dibattono in un mondo tutto maschile, corrono dietro ad un'emancipazione che si riduce nello scappare da un collegio, fumare, avere una vita dissoluta e cercare la compagnia di uomini ricchi...anche se nel caso di Cait il tutto è mascherato sotto una vena di romanticismo dipingendo Gentleman così come lo si identifica (un gentleman appunto) quando in realtà è un vecchio triste infatuato di una minorenne, che pone fine a tutto in modo molto vigliacco appena viene scoperto dal padre di lei e dalla moglie.
La letteratura è piena di giovani sfortunatissime, di giovani che vivono in periodi storici in cui le donne non contano nulla, ma questa davvero è la meno emancipata e la meno coraggiosa che abbia mai visto, una Jane Eyre o una Elisabeth Bennet sono, pur calate in un periodo storico ancora più buio per le donne, mille volte più emancipate, sagaci e intelligenti di questa ragazzetta che negli anni 60 vuole giustamente vivere la sua vita come vuole, ma è anche così ingenua da farsi sballottare dall'amica, dall'amante, da tutto.
Forse è voluto, ma questo libro non ha una morale, a me non ha fatto riflettere su nulla, se non sul fatto che questi scritti definiti “femministi” descrivono in realtà situazioni che non fanno trasparire nulla di edificante su queste fantomatiche “femministe”. Cait non si è emancipata in nulla se non nel vivere e lavorare mantenendosi da sola, per il resto subisce le decisioni altrui.
Gli stati d'animo della ragazza non sono nemmeno descritti così bene...a parte il frangente in cui la madre muore, la narrazione è un susseguirsi di fatti presentati cronologicamente, le descrizioni non sono per nulla scandalose, ma nemmeno lontanamente, nemmeno per il periodo in cui è stato scritto il libro (anni 60)...
Insomma, se questa signora è la più grande scrittrice di lingua inglese vivente, non immagino le altre.