Dettagli Recensione
Fate Finta che sia una Finzione.
L’Opera Struggente di un Formidabile Genio, Dave Eggers, 2000
Un orfano che alleva un altro orfano
ovvero
Fate Finta che sia una Finzione.
Prima opera in cui mi imbatto di Dave Eggers. Opera, leggo, più che un po’ autobiografica.
Da leggere da cima a fondo, prefazione compresa (seppur contro il mio costume, devo dire che la prefazione è una delizia. Scritta dall’autore e contenente un’attenta ed impietosa analisi del testo. Con indicazione delle parti da saltare; la frase del “titolo” viene da lì).
Si narra la storia della famiglia di Dave, ventiduenne, che in poche settimane vede morire di cancro prima il padre e poi la madre. Mentre il fratello maggiore ha già un’esistenza autonoma, Dave e la sorella Beth rimangono le uniche figure di riferimento per il piccolo Christopher, detto Toph, di otto anni.
Ma in realtà sarà quasi esclusivamente Dave ad occuparsi del fratellino, conducendolo in un’esistenza abbastanza caotica, piuttosto politically scorrect, un tantino randagia.
Ho trovato molto di Arturo Bandini (quello di «La strada per Los Angeles») e molto di Holden nel personaggio e nello stile di Eggers. Negli slanci, nelle fiammate, negli “spiegoni”.
Nell’amore viscerale per il fratellino.
Nella rabbia e nella goffaggine assolutamente e deliziosamente adolescenziali.
Nei voli della fantasia, nell’ansia di vivere, di non dormire, di sconfiggere, o, quanto meno, esorcizzare, la morte (che si ripresenta, all’interno della storia).
È un libro difficile da raccontare e – in qualche tratto – anche difficile da leggere.
Ma che si apre in alcune pagine davvero belle ed in altre davvero ricche di spunti di riflessione.
Eggers, qui, (proprio come Fante e Salinger) riesce a farti provare un insieme di sensazioni diverse e definite, seppur contemporanee. Quando descrive il funerale vero e quello immaginato della mamma. Quando, goffamente rischia di uccidersi per spargerne le ceneri (che aveva perso).
Quando gioca a frisbee con il fratellino. Quando è alle prese con l’amico aspirante suicida (ma poco convinto) John.
È stato osservato, non a torto, che questo libro è “troppo”.
Probabilmente è vero.
Alla fine è un po’ ubriacante.
Mette tanta carne al fuoco; come dice King “setaccia” tante storie e forse quello che rimane non è perfetto come avrebbe potuto essere. Ma è un’opera prima.
E in quest’opera prima enuclea alcune tematiche che poi riprenderà, ad esempio, ne “Il Cerchio”.
In particolare mi hanno colpito alcune riflessioni sul privacy/riservatezza e pudore, con cui prendo congedo.
«Siamo gente per cui qualunque idea di anonimato è esistenzialmente irrazionale, indifendibile. Ecco perché si fa e si farà un gran parlare di tutto - e di certo l'esito culturale dei nostri tempi rispecchierà questa realtà - interi film fatti di chiacchiere, chiacchiere sulle chiacchiere, considerazioni sulle chiacchiere riguardo alle riflessioni sul posto in cui viviamo, sui nostri desideri e doveri. Le ciance di una belle époque, insomma. Solipsismo rinforzato da fattori ambientali.»
«Moriremo un giorno e avremo protetto... che cosa? Avremo protetto dal mondo il fatto che facciamo questo o quello, che muoviamo le braccia in questo e quest'altro modo, e che la nostra bocca ha prodotto questi o questi altri suoni? Ma per favore. Ci sembra che rivelare cose imbarazzanti o private, tipo, che ne so, le nostre abitudini masturbatone (quanto a me, circa una volta al giorno, perlopiù sotto la doccia), significhi - proprio come per i primitivi che temono che la macchina fotografica gli possa portare via l'anima - che abbiamo dato a qualcuno una cosa che noi identifichiamo come i nostri segreti, il nostro passato e le sue zone oscure, la nostra identità, nella convinzione che rivelare le nostre abitudini o le nostre perdite o le nostre imprese in qualche modo ci deprivi di qualcosa. Ma in realtà è proprio il contrario, di più è di più è di più, più si sanguina più si dà. Queste cose, i dettagli, le storie e quant'altro, sono come la pelle di cui i serpenti si spogliano, lasciandola a chiunque da guardare. Che cosa gliene frega al serpente di dov'è la sua pelle, di chi la vede? La lascia lì dove ha fatto la muta. Ore, giorni o mesi dopo, noi troviamo la pelle e scopriamo qualcosa del serpente, quant'era grosso, quanto era lungo approssimativamente, ma ben poco altro. Sappiamo dove si trova il serpente adesso? A cosa sta pensando? No. Per quel che ne sappiamo, il serpente adesso potrebbe girare in pelliccia, potrebbe vendere matite a Hanoi. Quella pelle non è più sua, la indossava perché ci era cresciuto dentro, ma poi si è seccata e gli si è staccata di dosso, e lui e chiunque altro adesso possono vederla.»
Ad Maiora
A.
Indicazioni utili
La Strada per Los Angeles - Fante