Dettagli Recensione
Il manifesto dell’identità intellettuale....
... di Nabokov (e molto altro)
"Il dono" segna la fine della prima fase della produzione letteraria di Nabokov, e la storia della sua pubblicazione è abbastanza contorta. Fu infatti scritto in russo nell’ultimo periodo della permanenza dell’autore a Berlino, tra il 1935 e il 1937, ed apparve a puntate negli anni successivi, su una rivista dell’emigrazione russa a Parigi, in una edizione non integrale. Solo nel 1952 vide la luce integralmente a New York, essendosi l’autore ormai da tempo trasferito prima in Gran Bretagna e poi negli USA, e nel 1963 fu tradotto in inglese (con revisione dello stesso Nabokov). Questa edizione Adelphi è condotta sul testo originale russo. Le peripezie editoriali del libro ben si adattano alla complessità del testo: Il dono è infatti una sorta di autobiografia romanzata dei primi anni berlinesi dell’autore, nella quale sono comprese altre due storie, quella del padre del protagonista e un “libro” su Nikolaj Cernyševskij, lo scrittore e pensatore rivoluzionario dell’ottocento russo autore di Che fare?, scritto dal protagonista de Il dono. Queste due storie, che occupano rispettivamente quasi tutto il secondo e l’intero quarto capitolo dei cinque in cui è suddiviso Il dono, sono le colonne su cui si fondano due delle tematiche fondamentali sviluppate nel libro (tematiche peraltro sempre presenti nell’opera di Nabokov, almeno del Nabokov russo: la nostalgia per la Russia prerivoluzionaria – associata ad un profondo disprezzo per la Russia sovietica – e la polemica (che anche in questo caso sfocia nel disprezzo) nei confronti dell’arte utilitaristica, realista, volta all’impegno civile, rappresentata in sommo grado – nell’immaginario dell’intelligentsia russa di inizio ‘900, proprio dall’opera di Cernyševskij. Accanto a questi due temi portanti, che Nabokov sviluppa lungo tutto il libro, Il dono contiene anche una sferzante satira sull’ambiente dell’immigrazione intellettuale russa a Berlino, ci mostra il disprezzo (ancora!) di Nabokov per la città e la mentalità tedesca in genere, ci fa conoscere nuclei familiari gretti e meschini o sconvolti da tragedie personali, ci narra della nascita dell’amore del protagonista per una giovane russa e ci espone la sua completa dedizione all’opera dei grandi poeti russi romantici e simbolisti, Puškin e Blok sopra tutti. Il tributo a Puškin emerge sin dal nome scelto da Nabokov per il protagonista, Fëdor Kostantinovic Godunov-Cerdincev: egli è da poco giunto a Berlino, all’inizio degli anni ’20, ed ha pubblicato un primo volume di poesie dedicate alla sua agiata e serena infanzia russa, che ha tuttavia venduto poche decine di copie. A Berlino frequenta, oltre ai circoli letterari degli emigranti, anche la casa dei Cernyševskij (significativamente una famiglia con il cognome dello scrittore ottocentesco), il cui unico figlio, Jaša, aspirante poeta, si è da poco suicidato. Il secondo capitolo del libro è in gran parte dedicato alla rievocazione del padre, famoso entomologo ed esploratore, che non è più tornato da un viaggio in Asia nel periodo della rivoluzione, sulla cui figura Fëdor vuole scrivere un libro (che non scriverà). Fëdor Kostantinovic quindi si innamora, corrisposto, di Zina, la figlia dei suoi nuovi padroni di casa, gretti borghesi antisemiti a loro volta emigrati dalla Russia. Progetta e scrive un libro sulla vita di Nikolaj Cernyševskij, il cui risultato è il contenuto del quarto capitolo. Il libro, tuttavia, mettendo decisamente alla berlina un intellettuale considerato un po’ da tutti uno dei massimi rappresentanti della letteratura russa dell’800, prima trova difficoltà ad essere edito, quindi riceve molte critiche negative. Nelle ultime pagine, Fëdor Kostantinovic prima partecipa ad una seduta dell’associazione degli scrittori emigrati, nella quale si scontrano diverse correnti la cui unica finalità è gestire la cassa, poi ha un divertente incidente mentre fa il bagno al Grünewald, infine, approfittando della partenza dei genitori di Zina per Copenhagen, si appresta ad andare a vivere con lei e progetta un nuovo libro, magari da scrivere tra alcuni anni, in cui raccontare la sua vita a Berlino. Questa a grandi linee la trama, che sicuramente non è l’elemento essenziale del libro: facendo i dovuti distinguo, ritengo che Il dono, come struttura, possa essere accostato ad un capolavoro assoluto scritto un decennio prima: L’Ulisse di Joyce. Così come nella insignificante giornata di Leopold Bloom si dispiega il viaggio esistenziale dell’uomo novecentesco, la sua ricerca di identità di fronte al venir meno di ogni certezza, sublimata nel bisogno di paternità, negli anni berlinesi di Fëdor Kostantinovic ci viene mostrato il viaggio intellettuale dell’emigrato Nabokov, la ricerca di una nuova identità fondata sulla nostalgia del paradiso perduto russo e sul recupero di quella parte della sua cultura antecedente alla grande rottura che non ne costituisse il presagio o l’humus letterario. Tra l’altro sembra (anche se nella traduzione di Serena Vitale è a mio avviso difficile trovarne traccia) che ciascuno dei cinque capitoli de Il dono sia stato scritto nello stile di diversi autori russi (Puškin, Gogol’, Saltikov – Šcedrin), il che aumenterebbe il tasso delle inquietanti assonanze con il capolavoro di Joyce. Il dono, l’esaltazione di Puškin, il disprezzo per Cernyševskij, certamente quantomeno ingeneroso e in buona parte secondo me dettato dall’ammirazione espressa apertamente da Lenin, non possono quindi a mio avviso essere compresi appieno se non si tiene presente il sostrato di viscerale antibolscevismo che animava Nabokov, già emerso appieno nei primi racconti, raccolti da Adelphi ne “La veneziana”. Sarebbe interessante indagare se la posizione rigidamente individualistica e la sua concezione dell’arte per l’arte, il suo rifiuto di qualsiasi ruolo sociale dell’intellettuale e del suo prodotto siano stati la causa o la conseguenza del suo assoluto rifiuto di comprendere ciò che stava avvenendo nel suo Paese. Al netto di questi presupposti ideologici è indubbio che Il dono sia un libro estremamente affascinate, per la complessità dei temi trattati, per l’efficacia satirica del ritratto impietoso degli intellettuali russi emigrati, per la prosa di Nabokov che sta raggiungendo le vette espressive della maturità, per la forza quasi picaresca di alcuni episodi (su tutti quello del bagno al Grünewald). Il libro tra l’altro ha un andamento quasi circolare, e questo è un ulteriore indubbio motivo di fascino, nel senso che la sua fine è anche l’inizio dell’idea del suo racconto da parte di Fëdor Kostantinovic. Questa circolarità è espressa anche in alcuni episodi apparentemente secondari: Nelle prime pagine l’osservazione di un trasloco fa pensare a Fëdor che quello 'Sarebbe un buon inizio per un bel romanzo lungo, di quelli che si scrivevano una volta'; sia nel primo sia nell’ultimo capitolo vi è una storia di chiavi dimenticate da Fëdor, che gli impediscono di entrare in casa; due (e simmetrici) sono gli incontri che Fëdor immagina di avere con il poeta Konceev. Vi sono poi alcuni episodi anticipatori di Lolita, a testimonianza del fatto che Nabokov 'sapeva' di dover scrivere il suo capolavoro: il colloquio con il patrigno di Zina in cui questo esprime l’idea di scrivere un romanzo su un vecchio che si innamora di una giovanissima, e il modo in cui Fëdor Kostantinovic decide di prendere in affitto la stanza offertagli dai genitori di lei. Si è discusso molto del fatto se nel personaggio di Fëdor Kostantinovic si rispecchi totalmente il giovane Nabokov: l’autore stesso, nella prefazione all’edizione statunitense, nega recisamente l’identità con il suo personaggio. Io credo che la questione non sia importante: è Il dono nel suo complesso che è Nabokov, un Nabokov ormai pronto per traghettare la sua opera al di là dell’oceano ma che non si è ancora liberato completamente (se mai lo farà) di alcuni retaggi della sua aristocratica origine.