Dettagli Recensione
Del perdere la guerra in due.
La Vita non è Grave (Alors voilà) – Baptiste Beaulieu, 2014
«Non esiste un clima freddo, esistono solo gli uomini deboli.»
Ma anche
«Abbiamo perso la guerra, ma mi sento meno infelice per averla persa al tuo fianco.»
Un giovane medico d’oltralpe, autore di un blog di successo, descrive 7 giorni della sua vita in ospedale. Descrive tic di pazienti e colleghi, inefficienze della sanità pubblica, storie di speranza e di disperazione.
Ma soprattutto ci racconta di un raro tipo di medico che qualche volta, forse, ci è capitato di incontrare: quello innamorato del suo lavoro, che poi, a ben guardare, è la vita.
Ma soprattutto.
Ci racconta.
Non sono una patita di film e telefilm su ospedali, medici e medicina (il Doctor House non conta.
È semplicemente Sherlock Holmes che si mette a fare il medico. O vogliono farmi credere che sia un caso che abiti al 221B?).
Invece, da brava amante del “controllo”, mi piacciono gli ospedali. Mi piace andarci e mi è piaciuto studiarci per un po’. Sono quei luoghi in cui – di solito erroneamente – si ha la percezione di essere al posto giusto in caso qualcosa vada storto. In cui ci sono orari, protocolli, routine procedure, regole.
Stabili, sicure, volte al bene.
L’esperienza personale, sia diretta che indiretta, ha facilmente e velocemente sfatato questo mito, però un certo nucleo primordiale che associa ospedale e sicurezza in me persite.
Il giovane medico che ci racconta i suoi giorni di pronto soccorso, scanditi, come copioni, attraverso luoghi, orari e personaggi, non fa sconti alla sanità e alle nevrosi di medici e pazienti.
Con un sorriso (non sempre amaro) ci racconta i tipi che tutti abbiamo intravisto, qualche volta; che si sono fatti detestare e volere bene.
Ma soprattutto, ancora.
Ci racconta.
«Raccontiamo, raccontiamo.
Prolunghiamo la sua vita con le storie delle vite degli altri.
Le vite di quelli che giacciono a letto e di quelli che li rimettono in piedi»
L’autore ha una considerevole piacevolezza narrativa e linguistica, intervalla piccole battute divertenti, abbozza ritratti veloci di uomini e luoghi, crea piccoli film di cui ci rende partecipi della sceneggiatura e crea qualche parentesi più lirica e filosofica.
Senza eccedere, senza appesantire, senza dare l’impressione di avere la verità in tasca.
Esorta a vivere il momento, ad avere qualcuno con cui condividere le sconfitte e cercare di vedere le cose e il tempo in modo circolare e non lineare.
Ma – insisto – soprattutto racconta.
E leggendolo, a tratti, si ha quasi l’impressione che quella cosa mitica ed introvabile come l’araba fenice - cioè che si possa in qualche modo conciliare la sapienza scientifica con quella umanistica - non sia poi questo traguardo irraggiungibile.
Qui abbiamo un medico che scrive.
Chissà, magari…
(L’autore della recensione scaccia recisamente dalla sua mente l’immagine del megaprimario che si palesava con: “Novero, lei che ha fatto Lettere… ma «po» si scrive con l’accento o con l’apostrofo?” e continua a sognare. Di essere altrove.)
Un piccolo assaggio:
«Il signor Holmes arriva al pronto soccorso perché gli fa male il gomito quando fa così.
Così: mi prendo il braccio destro e lo agito violentemente in ogni direzione.
«Quando non fa così non le fa male?»
«No.»
«E allora perché lo fa?»
«Muovendolo, provoco il dolore. Siccome lo so, mi viene voglia di provarci.»
È una logica impeccabile: lui agita il braccio come un altro stuzzica un’afta con la punta della lingua.
«Come mai non è andato a farsi vedere dal suo medico di famiglia?»
«Non mi va di disturbarlo se non è una cosa grave.»
E perché invece non ti fai alcun problema a venire qui ad agitarmi il braccio sotto il naso e a saccheggiare il mio tempo prezioso? Spiegami questa, se puoi, caro il mio Sherlock!
Lo guardo dritto negli occhi, disperato: «Posso dirle con certezza che non ha niente che non va».
Sospiro di sollievo: «Vede! Ho fatto bene a non andare dal mio medico di famiglia, l’avrei disturbato inutilmente».
Come vorrei essere il James Moriarty di questo Sherlock Holmes!
Un’immagine: delle cascate d’acqua.
Una parola: violenza.
Avrei migliaia di cose da dirgli ma sono stanco. Mi limito a un «arrivederci».»