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Serenità drogata
Kai Hermann e Horst Rieck sono due giornalisti tedeschi. Scrivono per il settimanale “Stern”. Nel 1978 si trovano a Berlino per intervistare una quindicenne sul degrado giovanile. La ragazza si chiama Christiane Vera Felscherinow. Nonostante l’età, ha un passato da consumatrice di eroina ed è imputata e testimone in un processo per possesso e ricettazione di droga.
Quello che doveva essere un breve colloquio diventa una testimonianza lunga due mesi da cui nasceranno, rispettivamente nel 1978 e nel 1981, un romanzo e un film omonimo capaci di destare scalpore in tutto il mondo. Il libro, in particolare, è stato un oggetto di culto tra gli anni ottanta e novanta. Per gli educatori rappresentava un simbolo dello spavento che lo spettro della droga deve incutere nei giovani. Alcuni genitori lo leggevano come monito. Per gli adolescenti era un testo trasgressivo, scabroso, ma frequentemente percepito come lontano. Come spesso accade quando si affronta in letteratura il tema della tossicodipendenza, la mancanza di valori ed il senso di vuoto che connotano il testo possono essere infatti compresi in un’età che necessariamente non può essere l’adolescenza.
Il testo autobiografico inizia dal trasloco che porta la piccola Christiane e la propria famiglia da Amburgo alla periferia di Berlino. Segue un’infanzia complessa con un padre violento, la separazione dei genitori, la difficile integrazione in un sobborgo pieno di costruzioni imponenti e cemento che scoraggiano la fantasia di bambini e ragazzi.
Difficoltà familiari, noia, amicizie sbagliate e assenza di motivazioni possono essere, in una personalità fragile ed immatura, una combinazione estremamente pericolosa.
A 11 anni Christiane inizia a consumare tranquillanti. Poi è la volta dell’hashish. A 12 frequenta discoteche ambigue dove instaura conoscenze che la conducono rapidamente nel tunnel della tossicodipendenza da eroina e alla conseguente prostituzione per procurarsi il denaro necessario all’acquisto delle dosi giornaliere.
“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” è un testo disturbante. Assistiamo impotenti alla vertiginosa caduta di una ragazza, in una testimonianza capace di porre l’accento su una serie di tematiche ancora attuali.
Denuncia i casi in cui l’assenza di figure familiari stabili e vigili non permette una crescita equilibrata dell’individuo negli anni cruciali dell’adolescenza. Quanto delle persone che siamo deriva dal contesto in cui siamo cresciuti? Quanto è invece insito in noi come patrimonio genetico indipendente da una buona o cattiva educazione? È vero che si ha sempre la possibilità di scegliere?
Viene poi sottilmente criticato il modello della scuola tedesca degli anni ’70-’80, colpevole di creare eccessive differenze tra studenti e di non favorire un senso di collettività a causa di anonime classi, o meglio corsi, frequentate da più di 100 studenti.
Così come ne escono ridimensionate le forze dell’ordine, descritte come entità capaci di punire ma non di prevenire e comprendere il fenomeno nella sua interezza.
Sotto accusa anche le varie terapie affrontate dalla protagonista in mano ad analisti, infermieri e medici poco interessati al reale recupero mentale, e non soltanto fisico, della ragazza.
Al contrario di tante altre versioni romanzate e non realistiche, qui viene sottolineato un aspetto tanto veritiero quanto sottovalutato: il vero tossicodipendente non ha una vita, né sociale né tantomeno affettiva, e le poche amicizie che coltiva nel giro sono strumenti per arrivare più facilmente e con meno rischi all’acquisto delle dosi quotidiane. I presunti amori sono spesso un mezzo per condividere marciume e solitudine.
Alla fine del tunnel, un barlume di consapevolezza. Lontana dalla periferia di Berlino, Christiane realizza che la vita sa essere dura anche nelle piccole realtà, che la scuola non è poi tanto diversa, che faticherà a lasciarsi alle spalle il suo passato da tossicodipendente. E che ovunque ci sono giovani problematici. Rimane sorpresa, forse perché fino a quel momento è stata così impegnata a distruggere la propria esistenza da dimenticarsi di viverla e di guardarsi attorno.
“Siamo completamente soli in questa valle della follia”.