Dettagli Recensione
"Risate e applausi calorosi dai cespugli.”
La Strada per Los Angeles – John Fante, 1933-36 (pubblicato, postumo, nel 1985).
SPOILER
"Mi odiavo talmente che mi sedetti sul letto pensando alle cose peggiori che potessi pensare sul mio conto. Alla fine ero talmente esecrabile che non si poteva far altro che dormire."
Se dovessi definire “La Strada per Los Angeles”, secondo capitolo dell’epopea di Arturo Bandini con un aggettivo, non mi verrebbe in mentre altro che “ubriacante”.
Non è un flusso di coscienza, ma tale sembra, questo breve seguito di “Aspetta la primavera, Bandini” (in realtà la cronologia è più complessa. Questo è stato il primo libro ad essere scritto della “tetralogia”, ma l’ultimo ad essere pubblicato – postumo - nel 1985).
Ubriacante è questo diciottenne, ancora molto adolescente, nei modi; e ubriacanti sono i suoi pensieri, le sue azioni, le sue prese di posizione e le sue dichiarazioni di intenti.
Totali, assolute e senza appello.
Amori eterni, guerre totali, addii finali, conversioni definitive.
Puntualmente smentiti il giorno dopo (anzi, in genere prontamente sostituiti da altri analoghi).
Un ego ingombrate, come quello degli adolescenti, un continuo delitto di lesa maestà da parte del globo terracqueo, di cui, ovviamente, ci si vendicherà e – oh sì – sarà vendetta, tremenda vendetta.
Arturo vive con le insopportabili madre e sorella (il padre, Svevo, coprotagonista di “Aspetta la primavera, Bandini” è morto, ma “risorgerà” nel libro successivo), la prima inerte fino alla passività, la seconda pervasa da un fanatismo religioso eletto bersaglio dell’esuberante fratello.
«Non appena toccavo la maniglia della porta mi veniva la depressione. Casa mi ha sempre fatto quest’effetto. Anche quando era vivo mio padre e abitavamo in una casa vera, non mi piaceva lo stesso. Volevo sempre andarmene, o cambiare. Mi domandavo che casa sarebbe stata se fosse stata diversa, però non riuscivo mai a capire che cosa si dovesse fare per renderla diversa.»
Arturo perde un lavoro (unico sostentamento della piccola famiglia) dietro l’altro a causa del suo carattere, delle sue piccole ruberie, dei ritardi; legge tantissimi libri, in genere senza capirli molto, ma abbastanza da crearsi una piccola aura di sapienza che impressiona (poco) qualche sprovveduto (molto).
Immagina di diventare un grandissimo scrittore, mentre rimugina nel suo studio privato (“che poi era lo stanzino dei vestiti”), che poi è anche la sede eletta dove intrattiene le sue donne di carta (ritagliate dai giornali) sulle quali crea storie su storie ed esplica l’unica attività sessuale che gli è permessa (nonostante madre e sorella – che hanno perfettamente capito – bussino incessantemente alla porta).
Ma Arturo si sente un uomo che farà grandi cose, e come tale si atteggia. E si vendicherà di tutte le sofferenze.
«Camminavo lungo la strada insieme con altri. Chiedevano passaggi agitando il pollice. Accattoni dai pollici come arti di marionette e dai sorrisi pietosi, tutti lì a implorare le briciole dei motorizzati. Senza dignità. Ma non io, non Arturo Bandini con le sue gambe possenti. Non fa per lui, lo scrocco. Che mi passino avanti. Che vadano a centocinquanta chilometri all’ora, che mi riempiano pure il naso dei loro scarichi. Un giorno sarà tutto diverso. Pagherete per questo, tutti quanti, ogni automobilista lungo questa strada. Non ci salirò, nelle vostre macchine, neanche se uscite e mi supplicate e mi offrite l’automobile e mi dite che è mia subito, mia e senza alcun impegno. Piuttosto ci muoio, su questa strada. Ma verrà il mio momento, e allora vedrete il mio nome nel cielo. Allora la vedrete, tutti voi! Io non mi sbraccio come gli altri, non mostro il pollice ricurvo, quindi non fermatevi. Mai! Ciò nondimeno la pagherete.»
A volte.
Altre ha percezioni quasi eccessive della propria piccolezza, pur sempre titanica.
“Mattina, è ora di alzarsi, e allora alzati, Arturo, va’ a cercarti un lavoro. Va’ là fuori a cercare ciò che non troverai mai. Sei un ladro, un killer di granchi, un donnaiolo da stanza dei vestiti. Te non lo troverai mai, un lavoro.”
Il tutto condito con le piccole vicende che gli accadono, il lavoro presso l’impianto di conservazione del pesce, l’addio alle “donne di carta” in una momento di improvvisa (quando fugace) conversione religiosa (e parlando di Arturo Bandini, ogni donna ha un nome, una storia e una peculiare relazione con il protagonista e viene personalmente e in modo personalizzato fatta fuori). Il “topesco” principale, il repentino amore per la donna sulla barca con il costume bianco, o quello, assai più articolato e lungo (almeno qualche minuto) per la sconosciuta intravista per strada, che lo porta all’epico epilogo di mangiare il fiammifero che lei ha usato per accendersi una sigaretta. La stesura di un romanzo che fa morire dal ridere la sorella.
Fino alla conclusione. Arturo impegna l’anello nuziale e tutti gli altri piccoli tesori della madre e si compra un biglietto per Los Angeles.
«Con la valigia in mano, scesi allo scalo ferroviario. Mancavano dieci minuti al treno di mezzanotte per Los Angeles. Mi sedetti e cominciai a pensare al nuovo romanzo.»
Ho trovato la scrittura di Fante, in questo romanzo, perfetta. Perfetta per il suo adolescente obiettivo. Perfetta mimesi di Arturo, che è un fuffaro cazzone senza redenzione e che qui e là ti infila locuzioni elevate che probabilmente ha espunto da qualche libro che ha capito poco, come la “trivialità così levantina” di qualche malvagio arcinemico. A cui, a volte solo dai cespugli arrivano “applausi scroscianti” per le sue mattane e che a volte si imbatte in un “Platone raffreddato".
Assolutamente adorabile da quanto è perfetto ed intollerabile.
E che chiude descrivendo la scrittura come qualcuno per cui è davvero la vita:
« La matita grattava la pagina. La pagina si riempiva. Voltavo pagina. La matita procedeva fino alla fine. Un’altra pagina. Da capo a fondo. Le pagine crescevano. Dalla finestra entrò la nebbia fredda e discreta. Ben presto la stanza ne fu piena. Continuavo a scrivere. Pagina undici. Pagina dodici.
Alzai lo sguardo. La luce del giorno. Nebbia da soffocare. Era finito il gas. Avevo i crampi alle mani. Avevo una vescica sul dito che reggeva la matita. Mi bruciavano gli occhi. Mi faceva male la schiena. A malapena mi tolsi dal freddo. Ma non mi ero mai sentito meglio in vita mia.»
Poco contano le risate di Mena.