Dettagli Recensione
Il Vecchio, il Giusto e l'Esclusa
Il Figlio – Philipp Meyer – 2013
«Pete, sapessi quante cose avrei voluto salvare: gli indiani, i bisonti, le praterie dove allungavi lo sguardo per venti miglia senza incontrare uno steccato. Ma ormai sono cose superate.»
SPOILER
Lettura iniziata impulsivamente dopo la recensione atomica di un amico; devo dire non solo di non essere delusa, ma, anzi, di aver cercato altro di questo autore, quasi mio coetaneo.
La storia è di quelle che piacciono a me. Molto evocativa e molto “show don’t tell”.
Viene narrata attraverso la voce di tre personaggi appartenenti alla stessa famiglia, quella dei McCullough ed è ambientata in Texas.
Le tre voci sono quelle di Eli/Tiehteti McCullough, nato nel 1836, suo figlio Peter (nato nel 1870) e della sua bisnipote Jeanne Anne (detta Jeannie), nata nel 1926.
Eli, ragazzino che diverrà centenario, assiste all’assalto degli indiani Comanche della sua casa, allo stupro e all’uccisione della madre e della sorella e poco dopo a quella del fratello Martin (a causa della sua mancanza di volontà di adattamento alla vita della tribù che li aveva rapiti).
Eli invece si adatta. Con fatica e sofferenza all’inizio, ma con crescente senso di ammirazione ed infine di appartenenza. Osserva ed assorbe la filosofia dei Comanche e contemporaneamente ne scorge gli elementi che ne porteranno la rovina. È prima un ragazzo, poi un uomo che vorrebbe salvare tutto, ma non salverà niente, se non sé stesso e la sua indipendenza.
La grandezza di questo personaggio (che sarà anche quella della bisnipote Jeannie) è quella di avere uno sguardo “oltre”.
Oltre le contingenze e oltre la vita, anche.
Eli sa di essere un ospite negli abbacinanti paesaggi texani.
Sa di essere di passaggio fra i bianchi, fra i Comanche, di nuovo fra i bianchi, fra i coloni, fra i cacciatori, fra gli allevatori e persino fra i petrolieri.
Forse, come Jeannie, sa anche di essere solo, in fondo.
Ma sa anche che a stare soli si muore.
«Aveva ragione Toshaway: dovevi amare gli altri più di quanto amavi il tuo corpo, se no finivi distrutto, dall’interno o dall’esterno, non c’era differenza. Potevi massacrare, saccheggiare, ma finché lo facevi per le persone che amavi non contava. I Comanche non avevano mai secondi fini – non c’era niente di quello che facevano che non fosse per proteggere gli amici, la famiglia, la banda. Il morbo della guerra affliggeva solo l’uomo bianco, che combatteva negli eserciti, lontano da casa, per gente che non conosceva, e c’è un mito a proposito dell’Ovest, dicono che venne fondato e governato da uomini solitari, ma la verità è un’altra: il solitario è un malato di mente, e come tale era visto, e trattato con sospetto. Non campavi a lungo senza qualcuno che ti guardava le spalle, ed erano davvero pochi, sia fra i bianchi sia fra gli indiani, quelli che vedevano uno sconosciuto di notte e non lo invitavano davanti al fuoco.»
Come dirà molto felicemente proprio il figlio Peter, Eli è un uomo che non ha mai una scelta.
È così immerso nel fluire della vita e delle cose che non ha mai scelta, se non nell’assecondare quanto accade. Senza opporre un’inutile resistenza, ma anche senza raccontarsi storie.
Sa benissimo che, prima o poi, questo fluire che ha travolto prima gli Indiani e poi i Messicani travolgerà anche la sua famiglia:
« Fatto sta che è successo. È così che i Garcia hanno avuto la terra, spazzando via gli indiani, e così dovevamo averla noi. E così un giorno ce la toglieranno. E ti invito a non dimenticartelo.»
È un personaggi quasi ferino nella sua asciuttezza e lucidità. Ma non è mai crudele. Quello lo si può essere solo per scelta.
E questo lo fa ricordare.
Profondamente diverso dal padre, è Peter.
Come lo zio Martin, ucciso dagli indiani poco dopo il rapimento, anche Peter incarna una tipologia di uomo molto diversa da quella di Eli.
Amante dei libri, della lettura, profondamente giusto e retto, Peter è un personaggio che cerca sempre di scegliere il bene e non si adatta mai.
È quello con cui si dovrebbe empatizzare perché incarna la giustizia, la razionalità e la riflessione. È l’uomo perennemente fuori dal coro, l’unico che vede le cose come stanno e che cerca di opporsi.
Senza riuscirci mai.
Profondamente segnato da un episodio (l’uccisione e relativo saccheggio della tenuta della famiglia Garcia, vicini da generazioni, stimati e considerati fino a pochissimo tempo prima) a cui è costretto a prendere parte, per pagine e pagine è l’unico a manifestare memoria e compassione. A ricordare i morti e lo squallore dei vivi.
Il fallimento di Peter (di cui non spiego la natura e la modalità per non spoilerare troppo) è una presa di coscienza molto dolorosa, una piccola frase scritta nel suo diario, attraverso il quale viene narrata la sua vicenda.
« Bisogna impedire a questa famiglia di continuare.»
Quasi un’ineludibilità del male che porta con sé l’atto stesso di sopravvivere.
Terzo e ultimo personaggio e, per certi versi il più innovativo e “fresco”, è Jeanne Anne McCullough; sicuramente del ceppo del bisnonno Eli, piuttosto che di quello del nonno Peter, fin da bambina è un’eterna fuori sintonia; una per cui non c’è posto.
Annoiata dalle femmine e rifiutata dai maschi, impara, proprio dal bisnonno lo “sguardo oltre”.
La incontriamo anziana, in una situazione molto particolare (non spoilero) e ripercorriamo la sua vita e la sua sostanziale solitudine. Molto precocemente la nonna paterna (Sally, l’odiata moglie di Peter) la mette di fronte alla scelta che ogni donna di quel tempo (?) doveva fare:
« Sua nonna posò coltello e forchetta, li sistemò con cura e lisciò la tovaglia, prese un sorso di sherry. – L’ho sempre saputo che mi trovi noiosa, – disse. – Pensi che io sia così per natura, per indole, o probabilmente non ci hai nemmeno pensato. Ma quando ho deciso di trasferirmi qui, ho scoperto che potevo scegliere se essere benvoluta oppure avere voce in capitolo. La stessa scelta che dovrai fare tu. Sarai amata ma non ti rispetteranno, oppure ti rispetteranno ma non sarai amata.
– Le cose stanno cambiando.
– È un’impressione, ma finita la guerra gli uomini torneranno, e tutto riprenderà come prima.
– Vedremo, – ripeté lei.
– Questo posto, – disse la nonna. Agitò la mano, insofferente non solo a Jeannie ma a tutto: la casa, la terra, il loro buon nome. – Appartengo alla famiglia più ricca di quattro contee, eppure quando vado a votare mi guardano storto.»
Jeannie è un Eli nata 90 anni dopo e, per somma disgrazia, pure femmina.
Come il bisnonno condannata alla sostanziale solitudine non perde occasione per demolire i grandi miti dell’educazione femminile (maternità, famiglia, matrimonio, religione) con quella che definisce la sua più grande dote: «vedere la realtà senza raccontarsi storie.»
E sarà che è una dote che ammiro, anche lei si è fatta volere bene.
Per lo stesso motivo, dal momento che anche Meyer sembra avere la stessa caratteristica, il
romanzo è potente e scorre senza noia attraverso pagine, paesaggi e situazioni spesso indimenticabili.
Su tutte, giusto per un assaggio, io consiglio il capitolo XXVIII, l’epidemia di vaiolo nell’accampamento dei Comanche (racconta Eli).
Da leggere (tutto, obviously).