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Addio alle armi
 
Addio alle armi 2015-06-26 12:48:43 Anna_Reads
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    26 Giugno, 2015
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(Scrivere) la guerra e non l'amore.

Spoiler

Frederic Henry, americano, si trova sul fronte italiano nel periodo intorno alla battaglia di Caporetto. (24/10/1917); figlio di un diplomatico, si è arruolato volontariamente e guida le ambulanze. Si innamora di un'infermiera inglese, Catherine, resta ferito, viene curato, l'amata aspetta un bambino, lui torna al fronte, rischia di essere fucilato (per errore), fugge, si ritrova con Catherine a Stresa. La coppia, braccata dalla polizia, ripara in Svizzera dopo una fortunosa traversata del Lago Maggiore. Qui la gravidanza procede, ma Catherine muore per emorragia, a Losanna, dopo aver dato alla luce un bambino morto.

La mia idiosincrasia per (certe) storie d'amore è ben nota, e – ahimè – questa non fa eccezione.
Ma ridurre "Addio alle Armi" ad una storia d'amore è davvero un grosso errore di prospettiva, secondo me. "Addio alle Armi" è un romanzo di guerra, con una storia d'amore incidentalmente dentro (per riferimenti: Fenoglio, Crane, etc).
Pazienza.
Pazienza che Catherine sia stucchevole e che con lei lo diventi pure Frederic.
Pazienza anche per alcuni dialoghi smielati e onestamente noiosi, perché sono veramente poca cosa.
Perché Hemingway, di che pasta è fatto, lo tira fuori già nell'introduzione (1948):
"(…) C'erano sempre persone pronte a domandarsi perché costui (l'autore NdA) si preoccupa tanto e ha l'incubo della guerra, ma, dal 1933, forse è visibile che uno scrittore deve interessarsi di quel perpetuo e oppressivo, sporco delitto che è la guerra. Avendone fatte troppe di guerre, ho certamente dei pregiudizi in materia e spero averne molti. Ma è ragionata convinzione dell'autore di questo libro che le guerre vengono combattute dalla miglior gente che c'è, in un paese, o diciamo da una media dei suoi abitanti (quantunque avvicinandosi ai luoghi dove si combatte la gente che si incontra è sempre più quella migliore); le dirigono invece, le hanno provocate e iniziate rivalità economiche precise e un certo numero di porci che ne approfittano.
Sono convinto che tutta questa genia pronta ad approfittare della guerra dopo aver contribuito alla sua nascita, dovrebbe venir fucilata il giorno stesso che essa incomincia a farlo, da rappresentanti legali della brava gente candidata a combattere.
L'autore del libro, si incaricherebbe molto volentieri di queste fucilazioni se legalmente ne avesse la delega, dai candidati a combattere; si impegnerebbe a farle eseguire con tutta la possibile umanità e correttezza e a far sì che tutti i corpi ricevano degna sepoltura. Si potrebbe anche pensare a seppellirli con un rivestimento di cellofan, o di qualcuno tra i più moderni materiali plastici. Verso la fine della giornata, se ci fossero prove che ho contribuito anch'io a provocare la nuova guerra o non ho debitamente eseguito il mio incarico, accetterei benché malvolentieri che il medesimo plotone d'esecuzione fucilasse anche me, e di venir seppellito con o senza cellofan o di essere lasciato nudo su una collina.
Ecco il libro, dunque, poco meno di vent'anni dopo e questa è l'introduzione."

La guerra, la morte, l'umanità, la società sono al centro della riflessione dell'autore.
È la "generazione perduta" senza ideali, sogni, speranze e fede.
È un individuo "ripiegato" quello che emerge da questo romanzo, che solo nella chiusura in sé e nei pochi affetti superstiti trova uno spiraglio per sopravvivere. Non ci sono neppure il titanismo e il "furore" di Tom Joad.
Emblema di questa "generazione perduta" è Rinaldi, ufficiale medico ed amico di Frederic. Rinaldi con il progredire della guerra e della – parallela - riflessione sull'inutilità della medesima, perde le sue caratteristiche di buon umore e vivacità e come Frederic si chiude. Ma, invece che nell'amore, si rifugia nel lavoro, nell'alcol, nel sesso:
"- No. Mi piacciono due cose sole oltre il lavoro, una è cattiva per il lavoro e l'altra dura mezz'ora, o un quarto d'ora, qualche volta di meno. -
(…)
- No, non viene mai nulla di nuovo per noi. Con quel che abbiamo ci siamo nati, e non impariamo niente. Non viene niente di nuovo per noi. Partiamo completi."

Solo l'umanità, dolente e annichilita, resta anche se per poco, in balia della vita e della morte.
Le parole che Hemingway, attraverso Frederic, spende sulla guerra (e sui nostri italici vezzi) sarebbero da mandare a memoria e da ripetersi, almeno una volta al giorno:
"(…) rimanevo sempre imbarazzato dalle parole “sacro, glorioso, sacrificio” e dall'espressione “invano”. Le avevo udite anche in piedi sotto la pioggia e quasi fuori di portata dalle mie orecchie, quando solo le parole strillate forte riuscivano ad arrivare, e le avevo lette in proclami incollati ai muri sopra altri proclami, molte volte oramai, e non avevo trovato niente di sacro e le cose gloriose non portavano nessuna gloria, e i sacrifici in realtà avvenivano come nei mattatoi di Chicago: con la differenza che qui la carne andava in sepoltura. Erano molte le parole che non sopportavo più di sentire, e solo i nomi dei paesi avevano ancora dignità, e certi numeri, certe date. Rappresentavano tutto quanto aveva ancora un significato. Le parole astratte: gloria, onore, coraggio o santità sonavano come oscene rispetto ai nomi dei paesi, di numeri delle strade e ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti, alle date."

Non di meno, la riflessione, lucidissima, mai commossa, né compiaciuta di Hemingway sulla vita non è la cosa che ho amato di più di questo romanzo.
La cosa straordinaria non è solo "quello" che è scritto, ma "come" viene scritto.
Generalmente sono una grande amante dei dialoghi. Mi piace come un autore, attraverso i modi di parlare e i gesti del linguaggio parlato riesca a far vivere i personaggi. Mi sembra sempre che sia dando voce che si crei un personaggio credibile (dev'essere uno dei motivi per cui non apprezzo Tolkien, e, peraltro, faccio la logopedista. Riflessione estemporanea).
Hemingway tutto questo lo fa con le descrizioni.
Spesso molto brevi, a regalare un senso particolare solo con una tranquilla sinestesia ("Il locale odorava di primo mattino, di polvere sollevata dalla scope, di cucchiaini nei bicchieri e di cerchi lasciati dai bicchieri"), altre volte sono lunghe.
E con una di queste "lunghe" prendo congedo.
È la descrizione del ferimento di Frederic. Credo che sia uno dei brani più belli che abbia mai letto e che – senza ulteriori noiose aggiunte da parte mia – illustra perché questo romanzo vada letto.

"Finii il mio formaggio e bevvi un altro sorso di vino; tra i diversi scoppi avvertii altri colpi di tosse e uno sciù-sciù-sciù, e poi una vampata come se si spalancasse lo sportello d'un altoforno dentro uno strepito che cominciò bianco continuò rosso e via e via corse in una grande tempesta, cercai di respirare ma il respiro non voleva venire, e mi sentii scagliato a tutta forza fuori di me stesso, ancora fuori e ancora fuori, a tutta forza, nel vento. E tutto il mio essere usciva rapidamente da me e sentivo d'essere morto, e insieme che era uno sbaglio credere d'essere morto. Poi un tornare a galla, ma invece di risalire mi sentivo sdrucciolare all'indietro. Respirai, e mi trovai disteso sulla schiena, su un terreno sconvolto. Davanti alla mia testa stava una trave schiantata. Tra lo stordimento sentivo piangere qualcuno. Mi parve che gridassero. Cercai di muovermi ma non potevo muovermi. Udivo le mitragliatrici e i fucili sulle due rive e lontano lungo il fiume. C'era melma intorno a me, e le stelle dei proiettili salivano e scoppiavano e galleggiavano in cielo con una luce bianca, e vedevo salire razzi, udivo le bombe. E poi udii appena in fondo al mio corpo:
- Mamma mia! Oh mamma mia! - Mi stirai, mi contorsi, e finalmente riuscii a liberare le gambe, a girarmi e arrivai a toccare quello che si lamentava. Era Passini, quando lo toccai urlò. Teneva le gambe rivolte verso me e negli squarci luminosi le vidi sfracellate sopra il ginocchio. Una era già staccata. L'altra era trattenuta solo dai tendini e dai brandelli dell'uniforme, e il moncone strappava per conto suo, vibrava come un corpo a sè. Passini si mordeva il braccio e gemeva.
- “Oh mamma mia, mamma mia” - poi - “Dio ti salvi, Maria, Dio ti salvi, Maria” - , - Oh Gesù fammi morire, “Mamma mia, mamma mia”, oh purissima adorata Vergine Maria, fammi morire. Basta. Basta. Oh Gesù, Vergine cara, basta. Oh, oh, oh - poi rantolando - “Mamma, mamma mia.”
E poi tacque, col braccio tra i denti, mentre il moncone vibrava ancora.
- Portaferiti! - gridai dentro le mani a portavoce. - Portaferiti! -
Tentai d'avvicinarmi ancora a Passini, per cercare di tamponargli le gambe, ma non riuscivo a muovermi. Tentai ancora e le gambe si spostarono un poco. Riuscii ad avanzare a ritroso, puntando sulle braccia e sui gomiti. Passini era tranquillo adesso. Mi tirai su a sedere vicino a lui, gli aprii la giubba e cercai di strappare un pezzo della mia camicia ma non voleva venire e diedi un morso alla tela, verso l'orlo, per lacerarla; poi ricordai le sue fasce. Io avevo i calzettoni ma Passini portava le fasce. Tutti i conducenti portavano fasce. Ma a Passini restava solo una gamba. Sciolsi la fascia, ma durante l'operazione vidi che non c'era più bisogno di tamponare nulla; era morto. Mi accertai che era morto.
Volevo sapere degli altri tre. Cercavo di tener su la schiena, e sentii, allora, nella mia testa qualcosa che si agitava rigidamente, come il meccanismo degli occhi d'una bambola, e un gran dolore all'interno dietro le pupille. Le gambe erano tepide e bagnate e le scarpe erano bagnate e tepide anche loro, all'interno. Capii che ero ferito, mi piegai in avanti e misi una mano sul ginocchio, ma il ginocchio non c'era più. Scesi ancora con la mano e trovai il ginocchio. Era andato a finire sulla tibia.
Mi asciugai la mano nella camicia. Una luce nuova galleggiava intanto nell'aria, scendeva molto lentamente su me guardai alla gamba ferita ed ebbi paura.
- Oh Dio - dissi, - fammi uscire di qui. - Ma non mi dimenticavo degli altri. I meccanici erano quattro. Passini era morto.
Ne restavano altri tre. Mi sentii sollevare per le ascelle e per le gambe.
- Ce ne sono altri tre - dissi. - Uno è morto. -
- Sono Manera - udii. - Siamo andati a cercare una barella, ma non abbiamo trovato niente. Come sta, Tenente? -
- Gordini e Gavuzzi dove sono? -
- Gordini è a farsi medicare. Gavuzzi è quello che la tiene per le gambe. Si attacchi bene al mio collo, Tenente. E' grave la ferita? -
- Alla gamba. Come sta Gordini? -
- Una cosa da nulla. Ma è stato un bel colpo di mortaio! -
- Passini è morto. -
- Lo so. -
Arrivò un proiettile vicino a noi, tutti e due si buttarono a terra lasciandomi cadere.
- Ci scusi Tenente - disse Manera. - Si tenga bene al collo. -
- Se mi lasciate andare un'altra volta... -
- E' stata la fifa. -
- Voi due non siete feriti? -
- Roba da poco. -
- Gordini potrà guidare? -
- Credo di no. -
Prima di arrivare, mi lasciarono cadere di nuovo.
- Figli di puttana - dissi.
- Ci scusi Tenente - ripetè Manera. - Ora non succederà più."

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Fenoglio e Crane.
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Commenti

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Anna, vedo che anche tu non sei così entusiasta di questo libro. Penso che si tratti di un'opera di valore letterario, ma non imperdibile.
In risposta ad un precedente commento
Anna_Reads
29 Giugno, 2015
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Qualche volta capitano libri scritti benissimo, ma con una "storia" non all'altezza. Forse questo è uno.
Però la capacità evocativa di Hemingway è davvero qualcosa di grandioso.
Ad maiora!
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