Dettagli Recensione
Dove si firma per una vita così?
ATTENZIONE SPOILER !!
A questo libro sono giunta piena di aspettative.
Non vedevo l’ora di leggerlo, tout court. È sempre un pessimo modo di approcciare un libro. La delusione è sempre in agguato. Non di meno non c’è stata delusione alcuna.
Tuttavia mi trovo in una situazione di perplessità, perché, anche nelle critiche più entusiaste che ho letto e sentito, ricorrono spesso elementi e termini quali “uomo senza qualità”, “bello anche se non accade nulla”, “passività” e similia.
Ora, io devo dire che ogni tanto, mentre la lettura progrediva, ho avuto il dubbio di leggere un altro libro.
Riassumo il plot, come mia abitudine.
Il nostro protagonista nasce in una famiglia di contadini – da generazioni – che strappano con fatica, da una terra certamente non generosa, quel poco che gli serve per sopravvivere. Questi genitori, senza volto, quasi senza parole, al prezzo di grandi sacrifici mandano il figlio all’Università.
Per studiare.
Agraria.
Per migliorare la resa della fattoria e – si spera – le condizioni di vita della famiglia.
Il nostro parte per la nuova avventura, peraltro sfruttato dai parenti che dovrebbero aiutarlo, e la affronta come ci abituerà a fare sempre: determinato.
Non “rassegnato”.
Non “ottuso”.
Determinato.
A metà dell’università, folgorato dal professore apparentemente meno folgorante che si possa pensare – Archer Sloane - decide di cambiare tutto.
Non Agraria.
Letteratura.
“… e allora si sentiva fuori dal tempo, proprio come si era sentito quel giorno in cui Archer Sloane gli aveva parlato. Il passato sorgeva dalle tenebre e i morti tornavano in vita di fronte a lui, e insieme fluivano nel presente, in mezzo ai vivi, tanto che per un istante aveva la percezione di stringersi a loro in un’unica, densa realtà, da cui non poteva e non voleva sottrarsi. Tristano e la dolce Isotta gli sfilavano sotto gli occhi, Paolo e Francesca vorticavano nel buio incandescente, Elena e il radioso Paride, amareggiati dalle conseguenze del loro gesto, spuntavano dal buio. E Stoner li sentiva più vicini dei suoi stessi compagni, che si spostavano da una classe all’altra, alloggiando presso una grande università a Colombia, nel Missouri, e che camminavano distratti nell’aria del Midwest.
In un anno imparò il greco e il latino, quanto bastava per leggere i testi più semplici; aveva spesso gli occhi rossi ed irritati per la fatica e la mancanza di sonno. Certe volte rifletteva su com’era pochi anni prima, e il ricordo di quella strana figura, bruna e inerte come la terra da cui proveniva, lo lasciava incredulo. Poi pensava ai suoi genitori, li sentiva estranei quanto il figlio che avevano generato ed avvertiva per loro un misto di pietà ed amore distante.”
E qui Stoner ha trovato la PASSIONE. Quella che sostanzia la vita e quella che ti fa andare avanti, nonostante quello che (ti) succede intorno. Non sopporta, non si fa scivolare addosso, non resiste.
Sta facendo altro. Si sta occupando di altro. Di quello che è importante. Il resto viene dopo.
Capita a molti? Forse a pochi? Non so, ma è una fortuna da saper cogliere.
Ma torniamo all’uomo senza qualità.
Me lo vedo proprio, un uomo passivo e senza qualità che fa tutto questo. Che studia di notte, che impara a prendere le distanze anche da sé stesso, soggiogato da una passione che gli sostanzia la vita; un uomo che va a dire al padre e alla madre – che si son levati il pane di bocca per farlo studiare agraria, per migliorare le loro condizioni – che no, lui ha pensato di diventare professore di letteratura e non per soldi o prestigio, ma per passione.
Tout court.
Nonostante questo, Stoner lo fa.
Come farà sempre tutto il resto, senza modi eclatanti, senza grandi dichiarazioni di intenti, senza titanismo, senza hybris, senza “beau geste”. Quello che va fatto.
Diventato “professorino” fa amicizia con i colleghi Dave e Gordon.
(Dave, che rimane vivo per più o meno dieci pagine, è stato – al solito – il mio personaggio preferito; e mi è piaciuto come il suo ricordo tornasse nei momenti importanti del libro). Lui fotografa mirabilmente Stoner, Finch, l’Università/ospizio e sé stesso, nel monologo migliore di tutto il libro.
Non lo trascrivo tutto, ma nella descrizione di Stoner che vede la felicità e la giustizia “qualche libro più in là” io mi son commossa.
È Voltaire.
E nel suo fallimento c’è quello dell’illuminismo, di Voltaire e di una certa idea della cultura, del sapere e della bellezza.
Finch è tutto sommato un buon diavolo che non vuole darsi troppo da fare, ma in fondo non così malvagio da essere disonesto e Dave di sé dice “Sono troppo intelligente per il mondo e me ne andrei anche in giro a dirlo; è una malattia incurabile, la mia. Per questo devo essere rinchiuso qui, dove posso comportarmi in modo irresponsabile senza alcun pericolo, senza far del male a nessuno.”
Così, in mezza pagina, da un personaggio che va a morire per qualcosa in cui non crede.
Scoppia la prima guerra mondiale, grande entusiasmo “interventista” in America, arruolamenti in massa. Anche degli amici del nostro.
Che non si arruola.
Resta lì.
Scelta impopolare e controcorrente.
Non ci viene neppure spiegato – in un certo senso – perché. Almeno non direttamente da Stoner. Il senso di tradimento e spreco lo avvertiamo nelle parole di Sloane, ma non in quelle del protagonista.
In Sloane che dice “Non si dovrebbe chiedere ad un uomo di lettere di distruggere ciò che ha passato la vita a costruire.” C’è bisogno di un altro motivo per essere uomini di lettere?
E poco dopo “Deve ricordare – dice a Stoner – chi è e chi ha scelto di essere, e il significato di quello che sta facendo. Ci sono guerre, sconfitte e vittorie della razza umana che non sono di natura militare e non vengono registrate negli annali della storia. Se ne ricordi al momento ci fare la sua scelta.”
A pensarci, assai raramente viene fatta esplicitamente luce su quello che Stoner pensa. Abbiamo descrizioni di azioni e (brevi) dialoghi. In perfetta antitesi con Lomax che invece parla, strilla, gesticola ed agisce, Stoner è misurato, apparentemente al limite dell’apatia.
Secondo me è qui l’equivoco sulla passività e “l’uomo senza qualità”.
Stoner fa le cose come se non ci fosse altro da fare. Come se fosse “ovvio” o “naturale”
Rassegnato sarebbe chi subisse passivamente un destino che non si è scelto, ottuso sarebbe chi non sapesse deviare da una strada presa (o imposta).
Stoner non si ribella a forze e situazioni che non può modificare, ma resiste sempre. Non diventa complice e non si abbruttisce. Non può farlo, la sua Passione glielo impedisce.
Poi si infatua di Edith.
Bella, diafana, elfica, figlia di un banchiere.
Fuori portata, per un professorino figlio di contadini.
Non di meno, il nostro è Stoner. Determinato, riesce ad ottenere quello che desidera.
Peccato che non avesse una Morgana qualunque a dirgli di temere quello che desidera, specie nel momento in cui lo ottiene.
La povera Edith si dimostra, almeno all’inizio, una creatura debole e insicura, priva (lei sì) di qualità, come molte generazioni di donne, schiacciate dalla loro condizione cromosomica.
Non è difficile immaginarla a cercare un marito qualsiasi per tirarsi fuori da una situazione claustrofobica e poi incolpare lo stesso marito di non essere il principe azzurro che si era immaginata e accusarlo di averla strappata al suo magico mondo infantile (tra parentesi, avete presente il momento in cui Edith torna a casa dopo la morte del padre e ritorna nella sua stanza? E poi fa tutto meticolosamente a pezzi? Non è una sequenza da film horror? Io ne son stata sconvolta).
Stoner vede l’infelicità della moglie e capisce di esserne la causa, non l’unica, non la più grave e non volontaria, ma comunque causa.
Le resta accanto e cerca di assecondarla, perché le vuole bene e la vede per quello che è: una piccola creatura che soffre. Edith non vive per niente e non ha niente per cui vivere. Non ha qualcosa che la animi e la appassioni e, nei pochi momenti cui è felice, la sua è una felicità “disperata”. Cerca disperatamente qualcosa: prima nei suoi ricami fragili e nei suoi paesaggi delicati, poi nell’unica realizzazione che la società ammetteva, allora (?), per una donna: la maternità.
Ma l’alchimia non riesce. La maternità non la rende felice e neppure la lascia indifferente. Peggiora le cose. Comincia a rifarsi sul marito, perché lui sì che ha qualcosa che lo fa stare bene e lei no.
Stoner si ritaglia piccoli spazi di vita altrove. E può farlo, perché lui ha altro, ha la passione.
Ed arriviamo al momento – per me – più straziante del libro, la morte del mentore, ossia di Archer Sloane.
Lui sì, un titano.
“Ma William Stoner fu sempre convinto che fosse stato proprio Sloane, in un momento di rabbia e disperazione , a decidere che il suo cuore si fermasse, come in un ultimo, muto gesto d’amore e disprezzo verso un mondo che lo aveva tradito così profondamente da essergli diventato insopportabile.”
“E poiché non aveva né familiari né congiunti che lamentassero la sua dipartita, fu Stoner a piangere quando la sua bara venne calata nella fossa, come se il pianto potesse attenuare la desolazione di quella discesa. Se piangesse per sé stesso, per quella parte della sua storia e della sua giovinezza che finiva sotto terra, o per la povera figura smunta appartenuta all’uomo che aveva amato, non lo sapeva.”
E non è un caso che Finch, al momento di congedarsi da Stoner, dopo il funerale, associ le figure di Dave Masters e di Archer Sloane “Non so. Per tutta la funzione ho continuato a pensare a Dave Masters. A lui che moriva in Francia e al vecchio Sloane che è rimasto lì seduto alla sua scrivania, morto, per due giorni.”
Bene.
Persi i due personaggi preferiti e le uniche figure positive che gli siano, per un poco, passate accanto, Stoner è solo con i suoi libri, l’insegnamento, le nevrosi della moglie che diventano francamente patologiche, la sua bambina.
Grace.
Stoner se ne occupa amorevolmente, perché è quello che va fatto e che sente di dover fare, data l’incapacità della moglie. L’affetto vero, per la bambina, io lo vedo in altro. Grace è l’unica a cui Stoner permette di stargli accanto quando vive davvero. La tiene con sé nel suo studio, dove legge, dove scrive. Grace vede il padre essere felice e cerca di uniformarsi a quell’idea di felicità.
E qui apro parentesi.
Siamo sicuri (ma davvero sicuri sicuri) che, fatto salvo il grande amore che Stoner ha per la bimba – incommensurabilmente minore di quello che ha per la letteratura – questa educazione fosse una cosa “sana” per una bambina?
Nessuno si fa venire il dubbio che Edith, “risorta” dopo aver seppellito il padre e la sua parte adolescenziale, abbia davvero cercato di fare qualcosa per sua figlia? Perché non crescesse come una disadattata? Certo lo fa in modo incongruo e brutale, ma le propone un’idea di felicità – cioè l’essere popolare – che è quella che è stata inculcata a lei, alla quale sa – confusamente – che tutte le donne si devono uniformare per ritagliare qualche scampolo di felicità - siamo nel primo dopoguerra, non va dimenticato, secondo me.
Be’ a me il dubbio è venuto.
Io non la vedo, Edith, crudelmente malvagia, qui. Sa che Grace non potrà condividere la passione di Stoner e cerca di aiutarla. Come può e come sa.
Male.
Ma non “contro”, secondo me.
Stoner come reagisce? Come ci ha abituato a fare. Come fa con tutto quello che non lo riguarda troppo da vicino e, soprattutto, non riguarda quello che per lui conta davvero. In una parola quello che conta poco. Si adatta.
Gli portano via la bambina? Sta da solo. Gli smantellano lo studio? Sta all’Università.
Fastidi.
Invece, succede davvero una cosa importante a questo punto.
Arriva Hollis Lomax.
Nuovo professore, geniale, istrionico, volto d’angelo, voce d’angelo. Deforme.
“Gli ci volle un po’ di tempo per capire il motivo per quell’attrazione per Hollis Lomax. Nella sua arroganza, nel suo eloquio fluente e nel suo allegro cinismo, Stoner intravedeva, distorta, ma riconoscibile, l’immagine del suo amico Dave Masters. Avrebbe voluto conversare con lui come faceva con Dave...”
E accade, perché una sera, Hollis alza un po’ il gomito e parla di sé. Parla della sua “Passione” che lo ha liberato dalla schiavitù del suo corpo. Stoner lo ascolta e sente la sua storia. Lui è stato liberato dalla schiavitù della gleba, dalla Passione, Hollis da quella del corpo.
“E quando arrivò alle lunghe giornate e alle serate passate da solo nella sua stanza leggendo libri su libri per sfuggire a limiti che il suo corpo infelice gli aveva imposto, e alla scoperta graduale di un senso di libertà, che si faceva più intenso via via che ne comprendeva la vera natura. Quando raccontò tutto questo, William Stoner sentì un’affinità con lui che non aveva previsto. Capì che Lomax aveva attraversato una sorta di conversione, un’epifania di ciò che le parole possono far conoscere e che però non si può esprimere con le parole: proprio come era accaduto a lui durante la lezione di Archer Sloane. Lomax ci era arrivato prima, e da solo, e dunque quella conoscenza era parte di lui più di quanto non lo fosse di Stoner. Ma in fondo, ed era questa la cosa più importante, lui e Stoner erano uguali, anche se nessuno dei due avrebbe voluto ammetterlo con l’altro, o perfino con sé stesso.”
Stoner tende la mano a Lomax il giorno dopo, ma lui si ritrae, pentito di essersi esposto in quel modo.
E Stoner scrive. Ha perso un’anima affine, ma non ne ha bisogno. Ha sé stesso e il suo amore. Struttura il suo libro e struttura sé stesso “Ogni volta che ripensava a quel libro, e al fatto di esserne l’autore, restava stupito ed incredulo di fronte alla propria temerarietà. E alla responsabilità che si era assunto.”
È il panache di Cirano. È sé stesso, ciò che la passione gli ha permesso di essere. Quello che ha e quello che lascia. E scopre che questa passione riesce a comunicarla non solo attraverso lo scritto, con il libro, ma anche con la voce, insegnando. Scopre il piacere di insegnare, quasi goffamente; e immediatamente si dispiace per i suoi studenti precedenti, che ha “ingannato”.
“A volte veniva così preso dall’entusiasmo che balbettava, gesticolava e ignorava gli appunti, che di solito guidavano le sue spiegazioni. All’inizio quelle esternazioni lo infastidivano, quasi tradissero un’eccessiva familiarità con la materia e quasi se ne scusava con gli allievi. Ma quando quelli cominciarono ad andare da lui dopo le lezioni e a mostrare, nelle esercitazioni scritte, tracce di immaginazione e di crescente entusiasmo, si sentì incoraggiato a fare quello che nessuno gli aveva mai insegnato. L’amore per la letteratura, per il linguaggio per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò ad esprimersi, dapprima in modo incerto, poi con coraggio sempre maggiore. Infine con orgoglio.”
Parrebbe la felicità perfetta. Ma qualcosa minaccia il piccolo mondo di Stoner. Non sia tratta della guerra, del male, della moglie… ma qualcosa di veramente pericoloso per ciò che lui ama.
Arriva il pupillo di Lomax, Walker. Uno studente senza qualità che in qualche modo fa breccia nell’anima di Lomax, che – complice la deformità – in lui si rivede. E nel piccolo, insulso furbetto senza qualità, Lomax rivede sé stesso. E decide di aiutarlo, favorendolo, laddove non ha merito alcuno.
Il passivo (?) Stoner, che apparentemente non ha fatto una piega di fronte a ben di peggio, si arma fino ai denti e blocca l’invasione.
Da solo.
Si fa tormentare dalla moglie, si fa portar via la figlia, subisce ogni tipo di scelta altrui, ma questa no.
Perché questa era una cosa importante, le altre no.
Perché questo, uno Walker promosso, uno Walker insegnante, avrebbe messo in pericolo quello che davvero conta per Stoner.
Naturalmente nessuno capisce.
Stoner l’apatico si accanisce contro uno studente, pure deforme, pure pupillo di Lomax.
Gordon prova a farlo ragionare.
“Qualsiasi cosa tu faccia rischi di perdere la battaglia. Non possiamo tener fuori i vari Walker.”
“Forse no – disse Stoner – ma ci possiamo provare.”
E io la vedo, la faccia di Gordon, – Dave Masters aveva ragione – in fondo è un buon diavolo e vuole bene a Stoner – diventare un grosso punto interrogativo.
E Dave se lo ricorda anche Stoner, perché un momento dopo dice:
“Gordon, ti ricordi cosa ci disse una volta Dave Masters? (…) Eravamo tutti e tre insieme e lui disse qualcosa, qualcosa sul fatto che l’università è come un ospizio, un rifugio dal mondo, per gli infelici, gli storpi. Ma non alludeva a quelli come Walker. Dave avrebbe considerato Walker come… come il mondo esterno. E noi non possiamo lasciarlo entrare. Perché se lo facciamo diventeremo come il mondo, altrettanto irreali, altrettanto… l’unica speranza che abbiamo è tenerlo fuori.”
E qui Stoner difende quello che per lui è importante. Quello che vale, quello che salva la vita. Ed è inflessibile, apparentemente anche in modo incomprensibile.
Folle e assurdo.
La vendetta di Lomax è terribile. Non può licenziare Stoner, ma gli rende la vita un inferno. Lo tocca dove pensa di ferirlo (la carriera, l’insegnamento), riuscendo solo a indispettire Edith, che Stoner ormai bellamente ignora. Stoner sopravvive amenamente a tutto, perché nulla di quello che Lomax fa, lo tocca davvero.
Ha difeso, preservato e salvato il suo fortino. Come aveva detto Dave. Fine della storia.
Il resto non conta.
In tutto questo, Stoner riesce anche, ormai quarantenne, ad avere una storia d’amore “vera”.
E non a caso si innamora di una come lui.
Katherine.
Una donna animata dalla sua stessa passione. Si innamora di lei “leggendola” attraverso il suo lavoro di scrittrice. Si amano, leggono e scrivono.
Nessuno, almeno per un po’ se ne cura e la stessa Edith se ne buggera piuttosto discretamente (questa donna che poi doveva essere un mostro… non sarebbe stato un perfetto terreno di tortura questo? Invece niente). Alla fine, però, la storia arriva all’orecchio di Lomax che – ovviamente – da bravo Vilain della storia, intriga per separare i due amanti.
Anche qui, apparentemente, Stoner non lotta per il suo amore, come aveva lottato per la sua “passione”.
Invece, secondo me, i due agiscono di comune accordo e il dialogo “finale” che hanno è un bellissimo duetto d’amore.
“Se rinunciassi a tutto, se me ne andassi via così e basta, tu verresti con me, vero?”
“Sì” disse lei.
“Ma sai che non lo farò, vero?”
“Sì, lo so.”
“Perché in quel caso – Stoner spiegò a sé stesso – niente avrebbe più senso, niente di quello che abbiamo fatto, di quello che siamo stati finora. Io non potrei più insegnare, e tu, tu diventeresti qualcos’altro. Entrambi diventeremmo qualcos’altro, qualcosa di diverso da noi. Non saremmo…niente.”
Hanno capito – entrambi – che si amano per quello che sono. Perché son due lettori, scrittori, insegnanti. Perché amano i libri e la letteratura. Sono i libri e la letteratura. In “due cuori e una capanna” non si amerebbero, perché non sarebbero più loro. L’amore che hanno saputo donarsi derivava dalla passione che avevano in comune. Tradendola – lasciando cioè l’insegnamento, la letteratura, l’Università – perderebbero sé stessi e il loro amore.
E quindi, Katherine – da gran donna che è – esce di scena senza pianti e strepiti, ché tutto quello che c’era da dire era già stato detto.
Nel frattempo si prepara un’altra guerra mondiale. Un altro spreco di vite. Un altro attacco a quello che è importante. E ancora una volta, nel momento della disperazione la memoria torna a Dave e ad Archer Sloane e l’aiuto arriva dalla passione. Quella vera.
“Ripensò a Dave Masters e quell’antica perdita gli ritornò alla memoria con rinnovata intensità. Pensò, anche, ad Archer Sloane e ricordò, dopo quasi vent’anni, la lenta angoscia che si era fatta strada sul suo viso ironico, assieme alla disperazione corrosiva che aveva dissolto tutta la sua forza. E penso che adesso, nel suo piccolo, anche lui poteva comprendere quel senso di desolazione. Immaginò gli anni a venire e sentì che il peggio doveva ancora arrivare. Com’era accaduto ad Archer Sloane avvertiva l’inutilità e lo spreco di quelle vite votate interamente a forze irrazionali e oscure che spingevano il mondo verso una fine ignota. Al contrario di Sloane, Stoner conservava un piccolo spazio per la pietà e l’amore, in modo da non farsi travolgere da quel fiume in piena. E come in altri momenti di crisi e disperazione, guardava con timida fiducia al baluardo dell’istruzione universitaria. Si diceva che non era gran che, ma sapeva che era tutto ciò che aveva.
Nell’estate del 1937 sentì riaccendersi la vecchia passione per lo studio e l’apprendimento. Con la curiosità e l’entusiasmo infaticabile dello studente, la cui condizione è sempre senza età, tornò all’unica vita che non lo aveva mai tradito. E scoprì che non se n’era mai allontanato, neppure al culmine della disperazione.”
E questa, secondo me, è la passione “vera”.
Grazie a ciò, Stoner diventa “leggenda” all’università, superando di slancio anche le meschine vendette di Lomax. Insegna, cosa sa e come vuole. Ottiene quello che desidera e “in un certo senso fu un trionfo, al quale tuttavia continuò a guardare con atteggiamento ironico e sprezzante, come una vittoria ottenuta solo con la noia e l’indifferenza.”
Perché aveva già vinto.
Ormai “leggenda” dell’università, Stoner segna i suoi bravi punti anche a casa, dove Edith riprende la sua antica guerra. La povera donna, che ha accanto un uomo felice e sereno, nonostante tutti i suoi sforzi, per un po’ ci prova a tormentarlo, “coglieva ogni pretesto per deriderlo, ma Stoner difficilmente le faceva caso (…) gli gridava contro mille imprecazioni che lui ascoltava sempre con cortese interesse”, ora, fra i due non so chi possa apparire più crudele, a questo punto.
Alla fine pure Edith si arrende ed accetta la sconfitta.
Ci pensa allora Grace, a provare a rovinare la serena vecchiaia del padre, senza però riuscirci davvero. Divenuta “popolare” grazie agli sforzi – secondo me in buona fede – della madre, alla fine rimane incinta di uno di cui le importa meno di nulla. Stoner mette un deciso freno alle isterie di Edith e cerca una soluzione alla faccenda. Con Grace trovano quella meno dolorosa e fastidiosa possibile. Matrimonio, pupo, guerra mondiale, vedovanza.
Qui Grace e Stoner fanno in tempo ad avere un bellissimo colloquio, prima di quello estremo. Grace comprende di essere stata una delusione per il padre, che non lo ammetterà. Ma di fatto vede, nella figlia, quello che sarebbe stato lui senza passione. Senza i libri, senza la letteratura, senza l’università e senza l’insegnamento. Grace è lucida nel descrivere il suo opportunismo e la sua situazione. Si è sposata per fuggire da casa dove la sua natura non poteva trovare la pace a cui anelava, esclusa dai disegni materni e dalla passione paterna. Per farlo ha inguaiato un disgraziato che praticamente è morto per la vergogna. Si trova sulle spalle un moccioso di cui non le importa nulla, ma di cui, per fortuna, si occupano i nonni paterni. Ha la sua dimensione di tranquillità e pace, che era quello a cui anelava. Il conforto di una passione che le sostanzi la vita (probabilmente) non lo avrà.
Io penso che sia questa consapevolezza che fa dire a Stoner che è grato che almeno possa bere. Sa che non potrà essere felice, senza quel fuoco che ha reso felice lui, quindi è almeno grato che possa avere l’oblio.
Questo colloquio d’addio (prima di ammalarsi) con la figlia è il primo di Stoner. Il secondo sarà con l’amore e con Kathrine. Un amore che torna, ancora in forma scritta, attraverso la dedica “A W.S.” che Kathrine appone al suo libro. Amore e passione, fusi per un breve momento. Stoner non distingue fra amore per le persone e per la conoscenza “A una donna o a una poesia il suo amore diceva semplicemente: Guarda! Sono vivo!”
Poi naturalmente il destino si accanisce e Stoner si ammala. Ma di una malattia abbastanza lenta e dolorosa, in modo da poter prendere congedo da tutto. Lui l’affronta quasi con curiosità e con il solito, immenso, olimpico distacco. Perché, in fondo, niente può toccarlo.
Dopo la figlia e l’amore, l’addio tocca agli studenti, Stoner descrive la sua vita dicendo “Ho insegnato… ho insegnato in questa università per quasi quarant’anni. Non so cosa avrei fatto se non fossi stato un insegnante. Se non avessi insegnato, forse… (…) Vorrei ringraziarvi tutti per avermi concesso di insegnare.”
E io qui ho trovata una delle migliori dichiarazioni d’amore e devozione che abbia mai letto.
Ma il tempo stringe e gli addii fervono. Tocca ad Edith. I due si perdonano e – forse – pensano alla vita che avrebbero avuto se le cose fossero andate diversamente. Ma Stoner non indugia nel raccontarsi favole e la scrittura di Williams lo sostiene con la sua pulizia, senza sconti e senza sbavature:
“Se fossi stato più forte, pensava. Se avessi saputo di più. Se avessi potuto comprendere. E alla fine, spietato, pensò: se l’avessi amata di più.” La scrittura non fa sconti, come non se ne fa Stoner.
Non l’ha amata. Non come amava davvero quello che era importante. Al momento di massimo coinvolgimento emotivo, Edith lo ha infastidito. E lui ha fatto altro. A questo punto lo riconoscono entrambi, capiscono che non poteva essere diverso e si perdonano.
E siamo alla fine. E alla fine si ripresentano quelli che contano davvero.
Inaspettato (ma anche no) ricompare Dave, dopo 40 dalla sua morte, Stoner si sveglia e lo chiama, chiede di lui. Il povero Gordon è giustamente sconcertato e Stoner si pente di aver nominato l’amico “il ragazzo insolente a cui entrambi avevano voluto bene e il cui fantasma li aveva uniti, per tutti quegli anni, in un’amicizia più profonda di quanto avessero immaginato.”
E alle battute davvero finali, come Cirano, Stoner prende congedo da sé stesso, da quello che veramente ha contato, nella sua vita, per lui.
Come per Cirano non è Rossana l’ultimo pensiero, così per Stoner non lo è Kathrine, non lo è Grace, non lo è Edith.
Perché come Cirano di Bergerac, neppure Stoner è una storia d’amore.
È una storia di passione.
E come Cirano omaggia il suo panache – il suo pennacchio – come l’emblema del suo essere altro e di più e meglio, Stoner omaggia il suo libro. La sua passione, la sua eredità.
“Era il suo libro, che cercava, e quando la sua mano lo prese, sorrise vedendo la copertina rossa tanto familiare ormai sbiadita e consumata dal tempo.
Poco importava che il libro fosse dimenticato e non servisse più a nulla. Persino il fatto che avesse avuto o meno qualche valore gli sembrava inutile. Non s’illudeva di potersi ritrovare in quel testo, in quei caratteri scoloriti. E tuttavia sapeva che una piccola parte di lui, che non poteva ignorare, era lì, e vi sarebbe rimasta.
Aprì il libro, e mentre lo faceva, il libro smise di essere il suo.”
Dove si firma per una vita così?
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Io ho trovato il personaggio di Stoner addirittura "titanico" in certi momenti del libro (non andare in guerra, lottare contro Lomax), in altri, invece, come osservi, lo stesso appare addirittura imbelle.
Parlandone con amici lettori, molti non gli hanno "perdonato" il disinteresse nei confronti del destino della figlia.
Io credo che l'autore abbia voluto descrivere un uomo per cui - semplicemente - la famiglia (come pure l'amore in genere) non fossero la priorità, rispetto a quello che per lui contava davvero.
Penso che sia una delle cose che ho amato di più e trovato più originali.
Anch'io ho molto apprzzato il libro. Sobbalzo se qualcuno definisce Stoner un inetto : ha scoperto il valore della letteratura pur senza supporti familiari e significativi pre-requisiti; ha cambiato l'indirizzo di studi per seguire i propri interessi culturali; è riuscito a realizzarsi come insegnante anche fra mille difficoltà dell'ambiente; ha sopportato la moglie e amato la figlia. Certo, avrebbe dovuto sottrarre la ragazza dalle futilità della moglie (spingerla a diventare 'popolare' fra i coetanei ! ): sarebbe stata dura. Ebbe l'ingenuità di sposare quella donna : a quali rischi porta l'infatuazione !
Forse il paradosso - assolutamente voluto, secondo me - che si riscontra in questo romanzo sono appunto azioni "titaniche" (ad esempio passare dalla Facoltà di Agraria a quella di Letteratura per un uomo nella situazione di Stoner) descritte con lo prosa asciutta e pulita di Williams.
Non ci sono fanfare, squilli di tromba e neppure "crescendo" dell'orchestra.
Ma (anche) per questo l'ho trovato grandioso.
Troppo gentile, come sempre (il tuo commento mi era sfuggito).
Ho trovato questo libro davvero potente (e amatissimo).
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