Dettagli Recensione
Sotto il vestito niente
"Lettera a Berlino" è secondo me un libro che nasce male sin dal titolo. Infatti il titolo originale, “The innocent”, sicuramente più rappresentativo della storia e del suo protagonista, è stato cambiato nell’edizione italiana, presumibilmente per l’esistenza de "L’innocente" di D’Annunzio, con il risultato di un titolo che sembra messo lì un po’ a caso. (Per curiosità sono andato a cercare come se la sono cavata in Gran Bretagna rispetto alla questione: lì il libro di D’Annunzio è stato tradotto, nel titolo, come "The intruder").
A parte la questione del titolo, non mi pare che questo romanzo possa essere considerato un capolavoro del tardo novecento, neppure rispetto ad altra produzione letteraria di McEwan, del quale peraltro ho una conoscenza molto parziale, avendo letto solo "Il giardino di cemento" e "Cani neri". Per quanto mi riguarda, infatti, "Il giardino di cemento" è da considerarsi uno dei romanzi icona di un periodo, quello del crollo degli equilibri sociali ed anche psicologici costruiti nel secondo dopoguerra, che ne esplora più in profondità le conseguenze, attraverso una storia disturbante e disturbata che non esita a mettere in discussione alcune delle basi apparentemente più intangibili del nostro ordinamento sociale.
Confrontando la potenza di quel romanzo con il contenuto di "Lettera a Berlino" non si può che classificare quest’ultimo come un’opera minore, in cui il genere prende decisamente il sopravvento rispetto alla capacità di gestire con originalità il pur intrigante spunto di partenza.
Il libro è del 1989, ed ambientare un romanzo di spionaggio nella Berlino degli anni ’50 proprio nell’anno della caduta del muro è sicuramente il segno di una grande capacità di contestualizzazione delle storie narrate, peraltro narrate con grande maestria letteraria. McEwan però, come detto non sfrutta appieno questa intuizione, e ci consegna un romanzo fortemente stereotipato.
La storia è quella di Leonard Marnham, giovane tecnico inglese che viene mandato nel 1955 a Berlino per collaborare ad un progetto congiunto anglo-americano di intercettazione delle comunicazioni telefoniche sovietiche (progetto storicamente documentato). Marnham è l’innocente del titolo originale: non è animato da spinte ideologiche o patriottiche per il lavoro che fa e, pur avendo superato da un po’ i vent’anni, non ha ancora avuto esperienze sessuali.
Si ritrova in una Berlino ancora distrutta dalla guerra, che in effetti McEwan è in grado di restituirci sia con precisione cartografica sia attraverso atmosfere che ricordano la Vienna in Bianco e nero de Il terzo uomo: qui entrerà in contatto con americani gioviali e sbruffoni che, consci di essere i nuovi padroni dell’occidente mal sopportano la partecipazione inglese al “loro” progetto, con tedeschi rozzi e diffidenti nei confronti dei loro nuovi padroni, ma soprattutto troverà l’amore, incarnato da Maria, una donna tedesca, divorziata. Tra i due si inserisce l’ex marito di lei, ubriacone e violento, e qui il romanzo assume i toni cupi e quasi grandguignoleschi tipici di McEwan, che in ogni caso secondo me sono talmente forzati da spingere al macabro sorriso il lettore.
La storia si conclude con la inevitabile separazione tra i due e, nell’ultimo capitolo, Leonard torna a Berlino nel 1987, in piena perestroika, va a rivedere i luoghi dove ha vissuto e lavorato oltre trent’anni prima e rilegge una lettera ricevuta da Maria (ecco svelato il significato del titolo italiano) – emigrata in America – che gli spiega come veramente sono andate le cose.
Ho cercato di raccontare il meno possibile di una storia nella quale – trattandosi di un noir – la trama e la successione degli avvenimenti costituiscono un elemento essenziale del piacere della lettura. Parto proprio da qui per cercare di delineare quello che secondo me è il tratto essenziale di questo libro: la evidente dissociazione tra la sua forma – la indubbia maestria con cui McEwan scrive – e il suo contenuto, come detto a mio avviso del tutto di genere e stereotipato.
Stereotipata e stanca, secondo me, è la storia in sé: quanti romanzi sono stati scritti sullo spionaggio tra est ed ovest nel dopoguerra, sull’iniziazione amorosa di un giovane innocente. Stereotipati sono molti personaggi, che si dividono per cultura etnica: gli americani – gioviali e sbruffoni – gli inglesi – formali e un po’ tristi – i tedeschi – rozzi, ubriaconi e ostili nei confronti delle potenze occupanti. Stereotipato è il finale, con il nostro eroe che torna ormai vecchio nei luoghi della sua vicenda giovanile e capisce.
Oltre a questi stereotipi non c’è nulla, ed anche l’elemento macabro che McEwan introduce nella parte centrale del libro è fine a sé stesso, non è (come invece era ne "Il giardino di cemento") elemento essenziale della narrazione, senza il quale l’intero libro non sarebbe stato quello che è, non avrebbe detto ciò che dice: è elemento posticcio, appiccicato dall’autore come marchio di fabbrica e forse – azzardo – per rinvigorire una storia che egli stesso percepiva come troppo debole.
Insomma, mi sono trovato di fronte ad un McEwan da spiaggia, da lettura sotto l’ombrellone, che lungi dal tentare– come ne Il giardino di cemento – di scardinare le convenzioni sulle quali sono basati i rapporti umani, vi si appoggia e vi si adagia, costruendo dei personaggi a loro modo tutti positivi (con l’eccezione dell’ex marito di Maria, sorta di caricaturale Mr. Hide): anche se tra Maria e Leonard gli equivoci e le incomprensioni non permetteranno l’happy end classico, ci penserà comunque il tempo a ricostruire gli equilibri esistenziali, ed i due protagonisti potranno comunque vivere una loro appagante esistenza piccolo-borghese (McEwan si premura di farci sapere che Maria è presidentessa del club femminile parrocchiale “Le Donne e la Chiesa”).
Considerando che per l’edizione italiana è stato necessario cambiare il titolo, se mi avessero chiesto di formulare una proposta in merito avrei suggerito "Sotto il vestito niente".
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