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Ecco ciò che volevamo: bruciare
C'era una volta.. ai primi del Novecento un paesino della provincia francese, un piccolo borgo rurale, circondato da campi coltivati, boschi e ruscelli dove la vita scorreva lenta, pacata, nella sua imperturbabile ripetitività, come il rintocco di un orologio a pendolo.
Gli abitanti ne seguivano il ritmo adagiando la loro esistenza su una condotta monocorde, piatta, moralmente ineccepibile, cercando così di evitare quegli scossoni che avrebbero potuto determinare una frattura irreparabile nel regolare decorso della loro vita.
Silvio, la voce narrante, si recava in visita - come solito fare - presso la dimora dei suoi cugini, Helene e Francois, una dimora austera ed elegante che rifletteva in ogni minimo particolare l'integrità e la stabilità coniugale dei padroni di casa, dalla scelta e disposizione del mobilio, ai dipinti, ai libri disposti con ordine e cura.
E come accadeva spesso, ogni volta che entrava in quella casa, Silvio rimaneva affascinato dall'imperturbabilità di quel quadro familiare, verso cui inconsciamente avvertiva un certo senso di estraneità a causa del suo trascorso giovanile, in giro per il mondo in paesi lontani e sconosciuti quanto il cuore delle donne tra le cui braccia si addormentava.. un passato che era come una macchia indelebile sulla sua coscienza, agli occhi della sua famiglia ma soprattutto degli abitanti di quel villaggio che continuavano a trattarlo alla stregua di un 'figliol prodigo' senza però mostrare nei suoi confronti la misericordia del padre bensì un disprezzo mal celato verso chi ha sperperato futilmente i suoi averi.
E l'ammirazione di Silvio era ancor più accentuata quando osservava Colette, figlia di Helene e Francois, prossima alle nozze con Jean, erede di una delle famiglie perbene del villaggio; entrambi sembravano riflettere in tutto e per tutto l'integrità morale dei loro genitori e quindi degni eredi della loro rettitudine e felicità coniugale.
Un bel quadretto, ineccepibile.. ed è brava l'autrice nelle prime pagine di questo breve romanzo a cadenzare le sue parole, i periodi, sulla stessa frequenza lenta e flemmatica con cui si muove la vita in questo borgo francese.
Ma attenzione, questa non è una favola e tantomeno non c'è un lieto fine... questo piccolo borgo della campagna francese non è frutto della fantasia dell'autrice ed i suoi abitanti non sono personaggi immaginari con riferimenti puramente casuali a fatti e personaggi realmente esistiti.. tutt'altro, questi personaggi sono reali, sono copie speculari di uomini e donne da cui Irene era circondata e che lei ha riprodotto nel suo romanzo a fronte di una lucida analisi, obiettiva, spietata e senza remore, del loro mondo e della loro vita.
Anzi vi dirò di più.. questi personaggi sono anche eterni, non appartengono solo alla generazione di Irene ma anche a quelle passate e future perchè eterno è il "calore del sangue".
Cos'è il 'calore del sangue'? E' quel fuoco che avvampa la giovinezza, è fame di vivere, è desiderio di avventura, è quella forza interiore e misteriosa perchè la si percepisce irrefrenabile ma non se ne conosce la fonte, in grado di soggiogare ogni virtuoso tentativo di resistenza del singolo individuo in nome di una rettitudine morale molto spesso accettata solo perchè imposta dagli altri, ma mai realmente condivisa; per cui anche il carattere più risoluto, una volta attizzato, finisce per cedere.
"Chi non ha visto un fuoco simile deformare e piegare inaspettatamente la sua vita, in un senso opposto a quella che è la sua natura autentica?"
E nella giovinezza il calore del sangue diventa quasi indispensabile, come il fuoco in una fucina, per forgiare il carattere e la personalità, come in una sorta di percorso obbligato nella crescita di un individuo, un itinerario che ciascuno di noi dovrebbe compiere per acquisire quella saggezza che nasce dall'esperienza e che pertanto non può essere insegnata da nessuno, genitori o amici che siano; e non dev'essere assolutamente ostacolato o impedito in alcun modo, perchè qualora dovesse risvegliarsi nell'età adulta i suoi effetti sarebbero distruttivi, il fuoco covato sotto la cenere per tanti anni potrebbe divampare cancellando in poco tempo un'esistenza costruita a fatica giorno dopo giorno.
Ecco perchè, già dalle prime pagine, si percepisce tra le righe la sensazione che qualcosa sta per accadere, che la monotonia di quei giorni sempre uguali sta per essere rotta in modo violento ed irreversibile.. la quiete che precede la tempesta, l'incendio.
E lo si percepisce dalle parole di Silvio, che progressivamente diventano sempre più cariche di disprezzo verso quelle persone che nascondono dietro una facciata di perbenismo ed integrità una profonda grettezza morale:
"Bisogna riconoscere che i nostri contadini possiedono un talento innato per vivere nella maniera più dura possibile. Per quanto possano essere ricchi, respingono con implacabile fermezza il piacere, e persino la felicità, forse perchè nutrono scarsa fiducia nelle loro ingannevoli promesse."
"Sono persone troppo selvatiche ed orgogliose. Hanno piuttosto timore che ci si occupi di loro: sentirsi addosso gli occhi del prossimo è una sofferenza insopportabile. Questo, per altro, le rende impermeabili alla vanità: non vogliono essere invidiate, nè tanto meno compatite; solo starsene tranquille. E' il loro motto; un sinonimo di felicità, o meglio, un surrogato della felicità assente."
Nessuno è risparmiato, persino i due cari cugini, seppur in modo velato e quasi impercettibile ad una prima lettura, vengono in realtà derisi con un sarcasmo mascherato da finta ammirazione:
"Lo studio è una deliziosa stanza piena di libri, piuttosto piccola, con due grandi poltrone sistemate davanti al caminetto. Da oltre vent'anni i miei cugini trascorrono qui le loro tranquille serate, lui su una poltrona con un libro, lei sull'altra con un lavoro di ricamo; tra i due il rintocco dell'orologio, lento e rassicurante come un cuore privo di rimorsi: l'emblema della serenità coniugale."
E senza che il lettore abbia neanche il tempo di rendersene conto, l'incendio è già divampato: tutti quei palazzi incantati crollano sugli stessi pilastri che danno solo una parvenza di solidità, di felicità e di equilibrata armonia coniugale.
E le conseguenze sono disastrose per tutti, in particolar modo per chi sembra quasi aver dimenticato il 'calore del sangue', chi si è illuso di poter domare con l'aiuto del tempo che passa i suoi effetti roventi, la 'fiammata di sogni e desideri' che si porta dietro, la "febbre dell'anima, qualcosa di non paragonabile a ciò che sino a quel momento avevo chiamato amore", perchè molto più intenso, più coinvolgente seppur destinato ad esaurirsi in breve tempo in quanto alimentato dall'istinto, dalla passione e da sentimenti spesso 'immorali' e per questo certamente non candidati a durare in eterno.
"E non sto parlando semplicemente delle esigenze della carne. E' più complicato di così. La carne ci vuol poco a soddisfarla. E' il cuore ad essere insaziabile, il cuore che ha bisogno di amare, di disperarsi, di ardere di un fuoco qualunque.. Ecco ciò che volevamo: bruciare, lasciarci consumare, divorare i nostri giorni come le fiamme divorano la foresta."
Irene Némirovsky conosce bene il 'calore del sangue', lo si avverte dall'impeto e dall'entusiasmo con cui denuncia chi decide di mantenerlo sopito o peggio ancora di soffocarlo, di congelarlo a favore di una coscienza più pulita, "tanto che gli slanci di generosità che proviamo a vent'anni in seguito li bolliamo come ingenuità, dabbenaggine.. I nostri amori, puri e ardenti, assumono l'aspetto turpe dei piaceri più vili."
Il calore del sangue diventa così ghiaccio dell'anima.
Da qui la disperata preghiera finale, urlata al mondo intero:
"Torna, giovinezza, torna. Parla attraverso la mia bocca. Dì a questa donna campionessa di buon senso e di virtù che è una bugiarda. Dille che il suo amante non è morto, che lei mi ha seppellito in fretta, ma io sono vivo e vegeto, e ricordo ogni cosa. E' una bugiarda! La donna autentica relegata dentro di lei, ardente, allegra, audace, in cerca di piacere, io l'ho conosciuta, io soltanto! Al marito spetta una copia sbiadita e fredda, mendace quanto l'epitaffio di una tomba, mentre io ho avuto di lei quel che ora è morto: la giovinezza."