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Il coraggio della verità
Un libro complesso e difficile “Il tamburo di latta” di Gunter Grass. Un romanzo che assume un più ampio significato alla luce di quanto rivelato dallo stesso autore, molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, sulla sua appartenenza alle SS hitleriane.
La storia copre un periodo piuttosto ampio, che va dagli ultimi anni dell’ottocento fino agli anni cinquanta e si svolge in parte a Danzica, in parte a Dusseldorf, con qualche tappa in Francia. I luoghi sono estremamente importanti, perché teatro di contese territoriali laceranti e interminabili. La Casciubia o Pomerania era quella zona popolata da polacchi e da tedeschi, guardata con interesse e avidità dalla Russia, con l’inestimabile pregio dello sbocco sul mare.
Oskar nasce in questa terra povera ma ambita. Delle sue origini ricorda l’avventuroso incontro della nonna con il nonno, rifugiatosi sotto le quattro accoglienti gonne di lei per sfuggire all’inseguimento e alla cattura dei gendarmi. E a quel rifugio ampio e caldo si dovrà la nascita di Agnes e ad esso Oskar guarderà sempre come l’unico luogo ove sia possibile trovare un sicuro riparo. Nel suo viaggio a Parigi, ormai quasi adulto proverà la stessa sensazione di protezione sotto l’ampia base metallica della Tour Eiffel.
La nascita di Oskar è accompagnata e scandita dal simbolico e ripetuto scontro di una falena contro la lampadina, anticipazione dell’ossessionante suono del tamburo che Oscar suonerà dall’età di tre anni in avanti. E già a questa tenera età Oskar è così disilluso dal mondo che lo circonda, dal menage à trois dei genitori con Jan Bronski, così critico dei miseri interessi culturali della famiglia, dell’importanza esagerata sconfinante nel disgusto che essa dà al cibo che decide di non crescere più e di manifestare la sua protesta battendo energicamente sul suo tamburo e frantumando i vetri con la sua voce stridente. Questo sarà per molti anni il suo modo di contestare e deprecare il mondo che lo circonda. Dalla sua prospettiva di nano egli può permettersi di notare ciò che altri non riescono a cogliere. Con un’efficace tecnica di straniamento di brechtiana memoria, Grass alterna la narrazione in prima persona del giovane Oskar con quella in terza in cui è lo stesso Oskar che parla di sé da un punto di vista esterno. E dunque, come Gulliver, nano nel paese di Brobdignag, egli riesce a percepire gli errori e gli orrori dell’umanità, coglie la boria aggressiva del tedesco del terzo Reich, nella persona del padre putativo Matzerath, l’illusione inefficace e ambigua dell’oppositore al regime nella persona dell’altro padre Bronski, la spietata e ottusa persecuzione all’ebreo nella vittima Markus. Disgusto e volgarità sono percipiti ad ogni livello. Egli assiste agli espliciti e peccaminosi approcci tra Jan e sua madre. L’amore è sempre visto come qualcosa di apertamente o velatamente morboso. Così nel suo rapporto con Maria, mentre più limpida sarà la relazione con la nana Roswita nel suo viaggio in Normandia dove si esibirà con il maestro Bebra sui bunker costruiti con il cemento in cui hanno trovato orribile sepoltura persino inermi cagnolini.
Solo con la morte di Matzerath, Oskar deciderà di seppellire il suo tamburo e di cominciare a crescere. Eppure la sua crescita lo lascerà comunque nella perenne condizione di nano con l’aggravante della comparsa di una deformante gobba sulla schiena. Qui la metafora costruita da Grass intorno al personaggio Oskar raggiunge il livello più alto. La deformità di Oskar è la deformità di una Germania che ha perso ogni dignità, il cui popolo non ha più neanche lacrime per piangere. Ed è questo il significato del capitolo “Alla cantina delle cipolle”, dove come atto di estrema pietà verso se stesso ogni individuo si reca per recuperare il benefico effetto terapeutico del pianto.
Nella sua missione di espiazione, Oskar diviene un Cristo in terra, un salvatore che assume su di sé le colpe d’una umanità perduta. Il suo cammino procederà a fianco dell’implacabile Cuoca Nera, la cattiva coscienza di ogni individuo.
La complessità dell’opera non investe solo l’aspetto interpretativo della metafora: essa si estende al piano stilistico, che vede l’uso di un linguaggio diverso per ogni tipo di situazione o personaggio, fino all’inserimento di qualche pagina che riproduce una scena teatrale e verso la fine si lascia andare a una sorta di flusso di coscienza, così tipico della letteratura della prima metà del novecento.
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