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“Per favore, signora..."
Atmosfere cupe, linguaggio scarno, contenuti duri e a volte scabrosi: questa è la scrittura della Kristof, pacata e rabbiosa, deprimente e mai banale.
In questa Trilogia realtà e sogno ad occhi aperti sono sapientemente intrecciati e poi sciolti - lo stesso lettore viene più volte tratto in inganno dalla fantasia dei protagonisti - e mentre i fatti emergono in tutta evidenza ci si accorge che il tentativo di alterarli non è andato a buon fine: da un destino di dolore e solitudine non si può comunque fuggire.
“Dall'altra parte della piazza, le vecchie case sono rimaste intatte. Sono restaurate, ridipinte di rosa, giallo, blu, verde”: è uno scorcio della “piccola città”, luogo che fa da sfondo a buona parte del romanzo e che con i suoi colori vivaci si associa più alla variazione cromatica di una serie di lividi che alla gioia.
Se nella prima parte si indugia quasi nell'onirico e nella perversione sessuale vissuta da occhi ingenuamente complici, nelle ultime due l'innocenza infantile ci riserva i passaggi più struggenti, raccontando infanzie spezzate:
“Vai a piangere davanti alla tua casa vuota, non è vero?”.
Per chi ha perso da bambino la strada di casa non c'è alcuna speranza (“Per favore, signora, che autobus bisogna prendere per andare alla stazione?”), e malgrado il coraggio, malgrado la volontà di andare avanti, non fosse altro che per forza d'inerzia, resterà per sempre un adulto smarrito.
La lettura del libro è agevole ma non allieta certo lo spirito: anche l'immagine suggestiva di un cielo al tramonto dai colori “radiosi e belli” lascia un retrogusto amaro.
La fine del tormento, la speranza di ritrovare la pace, arriva solo con la sarcastica negazione della vita:
“Il treno è una buona idea”.
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