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Non si può sfuggire al proprio destino
Joris Terlinck è il potente e temuto borgomastro di Furnes, un paese fiammingo. È un uomo venuto dal niente, di umile estrazione sociale, che è riuscito a farsi una posizione in modo poco chiaro e sicuramente non onesto, non proprio quello che ci si aspetterebbe da un individuo che atteggia la sua vita a una intransigente rettitudine. Ma si tratta solo di una facciata in un’esistenza segnata da una grettezza che tende a rendere Terlink un amorale, condotta in modo noioso, perché sempre uguale, senza autentici affetti, perfino fra le mura di casa in cui vegetano una moglie succube e malata, una figlia demente, perennemente segregata in una camera, e una domestica, che a suo tempo è stata l’amante del borgomastro. Tutto procede secondo un copione grigio e monotono, senza sussulti, ma è che è l’ideale per un uomo che vuole sancire la sua presenza come segno di potere, fino a quando in questo muro impenetrabile si apre una crepa. Ed è solo l’inizio, a un evento ne segue un altro, un altro ancora, e sarebbero l’occasione per dare una sterzata alla vita di Terlink, per farlo uscire per sempre da quella sua armatura volta a celare una corrosiva insoddisfazione che sfoga maltrattando gli altri. Ma l’uomo non coglierà l’occasione, non uscirà dal personaggio che si è costruito e la sua monotona vita tornerà a scorrere, come prima. E così rientrerà nel suo mondo, immutabile, in una commedia della vita di cui gli attori sono sì artefici, ma anche succubi. Non ci si può opporre al proprio destino, sembra dirci Simenon, così come, affinchè tutto funzioni alla perfezione, non si può mutare il proprio ruolo, e chi arriva a farlo, come Terlink, diventato da povero a ricco, deve più di tutti contribuire a che questo equilibrio non sia turbato, e lo può fare solo in un modo, vale a dire forzando la propria natura in un’esistenza di potere, ma anche di squallore.
È ancora una volta confermata la straordinaria abilità di Simenon di sondare in modo pressoché perfetto l’animo dei personaggi, la sua è una fine analisi psicologica che non finisce mai di stupire, ma se l’ambientazione e l’atmosfera sono rese come sempre al meglio, quello che questa volta è invece criticabile è lo stile adottato, non quello fluente di tanti suoi romanzi, bensì una certa lentezza, accompagnata a volte da ripetitività, che appesantiscono non poco, rendendo la lettura meno piacevole del solito.
Comunque, non è che questa mia critica possa inficiare il valore dell’opera che è invece di tutto riguardo, anche se, purtroppo, questo romanzo si presenta meno avvincente di tanti altri del narratore belga.
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Ferruccio