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Cecità
Lo strano rapporto che questo libro instaura con il lettore (almeno con il sottoscritto) mette in chiaro le capacità del suo autore nell’arte del raccontare. Il romanzo, infatti, avrebbe tutte le caratteristiche per far scappare a gambe levate: a una distopia di quasi assoluto pessimismo – in cui il ‘quasi’ è un’assai fioca fiammella – che sprofonda chi legge in situazioni di sempre più acuta angoscia si somma la scrittura non semplice di Saramago, che sembra andare a capo solo quando, per caso, se ne rammenta scrivendo per il resto lunghissimi paragrafi nei quali annegano anche i dialoghi che si susseguono senza segni visibili d’interpunzione. Eppure, una volta preso il sinuoso ritmo dato dall’inconsueto scorrere delle parole, si finisce per rimanere agganciati al cupo svolgersi della vicenda, rituffandosi appena possibile fra le sue pagine. Tutto inizia con un tizio che, fermo al semaforo, si ritrova cieco all’improvviso: ben presto il ‘mal bianco’ (così detto perché chi ne è colpito è avvolto nel biancore invece che nell’oscurità) si diffonde a macchia d’olio a tutta la popolazione della città senza nome in cui il romanzo è ambientato (e, si suppone, all’umanità intera, tanto più che nessuno dei personaggi ha un nome proprio). Una situazione sempre più caotica finisce per solleticare gli istinti peggiori dell’essere umano che regredisce ben presto alle caverne, con i bisogni fondamentali che scatenano violenze e sopraffazioni basate sulla legge del più forte. L’ultimo girone infernale pare essere situato laddove sono stati internati i primi ciechi, finchè qualcuno ancora in grado di vedere poteva illudersi di contrastare così l’epidemia: fame, sete, sporcizia e morti ammazzati si accumulano prima che non ci sia più nessuno a fare la guardia e si possa uscire, peraltro solo per scoprire che, fuori, la situazione non è poi tanto migliore. Il cupo senso di quello che si può senza problemi definire un amaro apologo è stato chiarito dallo stesso Samarago al momento della consegna del Nobel: la nostra società è cieca perché non è più capace di solidarietà, cioè di ‘vedere’ gli (i bisogni degli) altri. Da qui l’impossibilità di ricostruire una struttura ordinata a partire da una tabula rasa e, soprattutto, la constatazione che i ciechi non riescono mai a essere davvero solidali tra loro, essendo gli incerti rapporti che si vanno costruendo basati, nella quasi totalità, sulla semplice convenienza. Anche il legame che si instaura tra le donne a seguito dello stupro è tenue, ma è comunque una di loro l’unica a mantenere la vista: il suo sacrificio per chi non vede, in special modo il marito (beffardamente un oculista) e il suo piccolo gruppo, va a costituire la fiammella di cui sopra – il bene tra tanto male, la generosità tra tanta indifferenza. La sua dedizione condurrà a una sorta di simbolico lavacro con l’acqua piovana che sembra preannunciare un finale a quel punto non più così a sorpresa: ciò non toglie che la conclusione sia di gran lunga la parte più debole del romanzo, faticando a integrarsi con quanto accaduto in precedenza anche a causa di un’inattesa accelerazione. Una chiusa in lieve calando che non inficia per nulla un romanzo di grande potenza, ma che, al tirar delle somme, fa sì che io gli preferisca ancora ‘Tutti i nomi’ e il suo mite, indimenticabile signor José.
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Laura
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