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Lettera aperta a un autore indolente
Caro Arturo D. Bandini,
dopo la lettura mi sento in dovere di scriverti con la stessa passione con cui tu, Arturo Dominic Bandini alias John Fante, narri le vicende della tua vita.
A essere sinceri, non mi sei immediatamente piaciuto, il nostro non è stato amore a prima vista e spesso, nel corso di questi mesi passati insieme ti ho tradito con commissari di ogni foggia e fama e con signorine dagli occhi a mandorla relegando il nostro rapporto in angoli bui. Solo ultimamente quella polvere che tu descrivi mi è entrata nella ossa e mi ha fatto desiderare di capire dove il tuo racconto andava a parare.
Alla fine anche io ho chiesto alla polvere, a quel pulviscolo che s'insinua in ogni dove, portando con se quelle briciole dell'esistenza, quei granelli dei ricordi, quelle particelle delle occasioni afferrate e irrimediabilmente perdute.
Capisco la difficoltà del momento, di codesto '39 del XX secolo, che scuote l'America nel profondo gettandola in una guerra assurda, la difficoltà che tu, figlio di contadini immigrati dall'Italia, hai affrontato per ambientarti in una città dalle molteplici facce come il deserto che la circonda. Quegli spazi rubati all'aridità che promettono sfarzi e ricchezze, ma che offrono, appena scendi dall'autobus proveniente dal paesello, alberghetti di second'ordine, strade polverose contornate di case cadenti e pasti rubati alla spazzatura. Immagino il fuoco dell'arte che brucia in ogni giovane scrittore, che porta a sopravvalutare le proprie capacità che infiamma e infonde speranza, ma che si spegne con altrettanta facilità lasciandosi dietro un oceano di paure. L'arroganza del successo che si trasforma in cattiveria per l'insuccesso, la sfacciataggine diviene codardia, il narcisismo muta in autolesionismo lasciando spenti ora dopo ora, percorritori idiosincratici di strade illuminate solo dalla luna, tra facce omologhe alla ricerca di una nuova musa senza un soldo in tasca.
Concordo che tutto questo può rendere instabili, può far diventare crudeli, può indurire, ma ti ho odiato per quel veleno che sprizza da ogni riga per la tua incapacità di riconoscere l'amore, per il desiderio di sesso e l'inadeguatezza di farlo, per tutte le gioe e i tormenti vissuti da quando Camilla Lopez, con le sue huarachas consunte, ti ha ghermito trascinandoti in un balletto schizzofrenico di desiderio e di rifiuto fino all'autodistruzione.
Pagina dopo pagina, quel lessico raffinato mi ha annoiato e ammaliato, quel narrare senza filtri le emozioni, quell'esprimere ogni sentimento senza pudore mi ha attirato e respinto generando sensazioni non dissimili da quelle che tu racconti. Stucchevoli illusioni, dolore autentico, conflitti dilanianti si susseguono in me e nel tuo romanzo lasciandomi perplessa, non lo nego, felice ma diffidente sul proseguire fino alla fine.
A oggi, caro Arturo, affermo di aver fatto bene a leggerti fino alla fine, ma francamente, non so se ci rincontreremo, per il momento mi sento di doverti abbandonare qui e di non volere null'altro sapere di te, tuttavia “se la donna mobile qual piuma al vento” (Rigoletto) potrebbe arrivare il giorno che tornerò te.
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