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Tanto maculato quanto invisibile
“L’occhio del leopardo” di Henning Mankell è un pendolo di carta, che oscilla tra due estremità: la Svezia e lo Zambia. Il movimento del pendolo mette in risalto le profonde divergenze che il protagonista, Hans Olofson sperimenta nel suo viaggio africano, originariamente concepito per raggiungere la missione di Mutshatsha, sogno dell’amante suicida (“L’incontro con la Donna senza naso rappresenta una svolta decisiva nella loro vita”), poi tramutatosi in permanenza ventennale nella terra del leopardo.
Forse per superare i traumi giovanili (l’abbandono dalla madre, l’etilismo del padre, la disgrazia che colpisce il migliore amico e il suicidio della “donna senza naso”), forse perché “viaggiare significa voler superare qualcosa”, forse catturato dal fascino del continente nero (“Spesso negli anni si chiederà cosa sia realmente accaduto, quali forze si siano sviluppate dentro di lui, avvinghiandolo e alla fine impedendogli di andarsene"), Hans supera il difficile impatto iniziale con la realtà africana, accetta l’offerta di collaborare nell’allevamento di galline ovaiole gestita dall’europea Judith Fillington, e infine ne rileva la fattoria, ove intende realizzare un nuovo modello di collaborazione con i lavoranti africani. Ma le diffidenze locali (“Vivono in un’epoca di esasperazione, di declino. I bianchi in Africa sono persone confuse e disorientate di cui nessuno vuole più sentire nulla”) e le divergenze culturali rispetto a una tradizione imparentata con stregoneria e riti magici ben presto innescano il terrore: le minoranze bianche (come i coniugi Masterton, i primi amici di Hans) vengono orrendamente trucidate e Hans non riesce a reggere la tensione, che lo costringe a vigilare, a stare sempre allerta, con la mano sempre armata per difendersi.
Sullo sfondo della storia, si staglia la sagoma affascinante e selvaggia del leopardo: animale notturno e schivo (“Pochi africani hanno visto un leopardo… all’alba, le sue impronte sono ben visibili in prossimità delle capanne”), che rappresenta una civiltà aggressiva, propensa a reagire ai torti subiti con il colonialismo.
“C’è una leggenda… quando il giorno del giudizio si sta avvicinando e gli esseri umani già non ci sono più, ha luogo l’ultima prova di forza fra un leopardo e un coccodrillo. Due animali che sono sopravvissuti grazie alla loro scaltrezza. La leggenda non ha un finale. S’interrompe nel momento in cui i due animali passano all’attacco. Nella fantasia degli africani, il leopardo e il coccodrillo portano avanti il loro duello all’infinito, fino al buio finale o a una rinascita”.
Il romanzo propone interessanti riflessioni sulle divergenze culturali (“I missionari sono come tutti gli altri bianchi… Esigono sottomissione”), sul fallimento dell’imperialismo europeo, sul fascino misterioso ed etnico di civiltà violentate dalle incursioni occidentali, sul potenziale esplosivo delle reazioni in atto…
Bruno Elpis
P.S. Nella sezione “recensioni” di www.brunoelpis.it il commento viene accompagnato con fotografie dell’invisibile deuteragonista del romanzo: il leopardo…