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Città aperta
 
Città aperta 2015-03-07 14:40:48 Todaoda
Voto medio 
 
2.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
1.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    07 Marzo, 2015
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Intelletto a buon mercato

Intime riflessioni, vivide ancorché fugaci sensazioni e uno stile pulito ed accattivante fanno di questo semi-esordio letterario più che un romanzo impegnato un elegante pamphlet di intellettualismo contemporaneo. Manca infatti qui una vera e propria storia dalla trama definita e sono scarsi se non del tutto assenti quegli elementi che fanno solitamente di un' opera un lavoro omogeneo e completo, ovvero la linearità cronologica e quel tipico intrecciarsi delle storie dei personaggi secondari che contribuisce a creare un quadro organico d’insieme. Ciononostante, l'abile e fluente penna di Teju Cole sembra riuscire a regalarci attimi di vero piacere razionale, e non tanto per gli argomenti trattati, ad onor del vero vagamente ridondanti (sono i temi sociali più dibattuti in questi anni e l’autore non li affronta con sguardo personale e neppure particolarmente innovativo), ma per l’apparente qualità, l’apparente ricercatezza e, qui è giusto sottolinearlo, la naturale scorrevolezza, con cui riesce ad inserirli nel tessuto narrativo di questo lungo (eppur breve, breve quanto un ricordo) excursus sulla vita di un uomo.
Sì, a ben riflettere è sicuramente in questa, nell’elegante fluidità della narrazione, che risiede la forza del romanzo, una fluidità che Cole riesce a trasmettere al protagonista stesso e per riflesso all’intera sua vicenda. Ma attenzione è la fluidità ad essere elegante, non la vicenda e tantomeno il protagonista. Ma su questo ci torneremo dopo poiché per capire le ragioni di quest’ apparente contrasto è necessario concentrarsi prima proprio sulla figura del protagonista, figura molto forte e centrale (molto più che in altra narrativa di genere) nell’evoluzione del pensiero dell’autore.
Il protagonista, l’uomo creato da Cole, è un americano senza nazione (metà africano e metà tedesco) dalla giovinezza stentata e burrascosa che grazie alle proprie forze riesce a crearsi un brillante avvenire. Egli non solo è la perfetta incarnazione dell'ideale di self - made man, ma anche, per il suo passato, l’archetipo del disagio sociale. È sì, infatti, ora un uomo equilibrato e di successo ma è anche un uomo che in realtà cela agli altri, e soprattutto alla sua coscienza, diversi scheletri nell’armadio, scheletri che non gli permettono mai di sentirsi a proprio agio, neppure tra coloro che condividono le sue stesse fattezze (connotati, corporatura, e non per ultimo colore della pelle) e neppure tra coloro che condividono la sua stessa condizione (salute, occupazione e, non per ultima, posizione sociale), un uomo insomma, ci fa capire Cole, che, malgrado l'intelligenza, le buone maniere e la cultura, non riuscirà mai ad integrarsi in una società, vuoi americana, vuoi europea, vuoi africana, sempre endemicamente chiusa nei confronti della diversità, e per quella sua (che poi è anche la nostra...) stessa chiusura sarà, sempre pronta a giudicarlo dalle apparenze; e dunque un uomo che come sola risposta alle sue tribolazioni avrà esclusivamente la fuga: la fuga dalla madre patria da bambino, la fuga dalla propria famiglia da adolescente e la fuga in Belgio, anche solo per una vacanza o per riallacciare un rapporto, da adulto. Particolarmente brillanti e degni di nota durante il viaggio europeo sono i passaggi che vogliono “il nostro” (uomo comunque cresciuto con valori occidentali) scontrarsi dialetticamente in territorio neutro (appunto Bruxelles) con un suo pari, educato, colto e per nulla estremista, cresciuto in un ambiente mussulmano. E addirittura sorprendenti, considerato il tenore del libro (filo buonista –perbenista - progressista) le conclusioni che l'autore ne trae. Ma non divaghiamo troppo. Dunque il viaggio, la fuga. Diceva il saggio (e nella fattispecie forse si trattava di Orazio o forse di Catullo o forse di qualcun altro ancora, certamente comunque qualcuno più saggio di colui che scrive e che riporta delle citazioni senza documentarsi a dovere…) diceva il saggio, che colui che continua a cercare la felicità nel continuo cambiamento è destinato a condurre una vita infelice, poiché prima di cercarla altrove dovrebbe cercarla in se stesso. E mai “citazione” fu più appropriata poiché l’infelicità di fondo del personaggio di Cole, è sì legata all’impossibilità di integrarsi nel paese dove di volta in volta vive, ma non si tratta di quell’ emarginazione populista e talvolta anche “auto - compianta” contro cui spesso si scaglia l’opinione pubblica (immemore che è proprio lei il più delle volte a crearla), no, è una emarginazione individuale, esclusivamente personale, è un intimo disagio nei confronti di se stessi, un disagio insomma contro il quale, proprio come diceva Catullo (o va be Orazio) ben poco si può fare se non si viene prima a patti con quel che si è. Tuttavia il protagonista non ci riesce e la sua sofferenza diventa il motore principale della narrazione tanto (e qui risiede un’altra delle poche altre peculiarità del romanzo), che grazie a questa, e al suo potere appunto emarginante, si crea tra le pagine come una bolla, una bolla di vetro infrangibile e di intima solitudine dalla quale il protagonista (e noi con lui) può osservare la vita in tutta la sua variegata bellezza e le sua, talvolta palese, assurdità; una bolla insomma che lo (e ci) nasconde dal mondo esterno e che lo (e ci) protegge dal rumore, il caos e la sofferenza che dovrà incontrare lungo il cammino della vita, garantendogli, forse, quel famoso “centro tranquillo”, quel silenzioso bilanciamento interiore, tanto caro anche agli orientalisti new-age, e che solo attraverso la sua scoperta permette di creare una base da cui attingere attraverso intelligenti riflessioni per farsi forza lungo... Be, come si diceva, appunto... il cammino della vita.
Uhm... Sofferenze che portano alla scoperta della vera felicità tramite la scoperta del proprio bilanciamento interiore, dov’è che si è già sentita questa cosa?
Ah sì, ovunque!
Ahi ahi, che dietro la facciata di sentito ed originale intellettualismo di Città Aperta si incomincino ad intravedere chiazze di volgare, modaiola, banalità? No, ma non lasciamoci fuorviare dalle piccolezze, si tratta sempre di un libro elegante, piacevolmente ricercato, e appunto intellettualmente profondo, giusto no?
No.
Poiché se in questo sofferto e intellettualoide “streben” del protagonista (e dai concedete al sottoscritto di utilizzare l’unica parola di tedesco che sa!) risiede forse il pregio dell’opera, qui, rannicchiato tra le auliche righe, sicuramente vi risiede anche il suo peggior difetto. E’ opportuno però spiegarsi meglio e per farlo è necessaria (per vostra fortuna!) un’altra breve digressione.
Città Aperta talvolta viene definito “narrativa da viaggio”, altre “narrativa di viaggio”, e forse non sono sbagliate ne l’una ne l’altra definizione, ma non è per il passeggiare Newyorkese, e fortemente Alleniano che l’autore fa compiere con studiata periodicità al suo uomo, che il romanzo si può ascrivere a quelle tipologie letterarie, è invece per quel sopracitato (a lungo sopracitato!) intimo viaggio del medesimo uomo dentro la propria coscienza alla scoperta di un, se non nuovo, almeno dimenticato, o sopito, se stesso. Ed è questo un viaggio fondamentale di un certo tipo di narrativa “di classe”; tuttavia proprio perché fondamentale, e dunque fortemente sfruttato, oggi giorno deve essere necessariamente affrontato in maniera innovativa e realmente anticonvenzionale, se invece, come in Città Aperta, al contrario è una semplice rivisitazione dei cliché più comuni, e anche dei luoghi più comuni, la ricercata introspettività non diventa altro che un canonico elenco di banalità, e il romanzo non diventa altro che un accumularsi di concetti ed opinioni già ascoltate, noiose e fastidiose; soprattutto fastidiose, fastidiose esattamente tanto quanto quella ricercatezza che da principio può far pensare di trovarsi finalmente di fronte ad un’ opera dotta, equilibrata e, perché no?, intelligente, ma che alla fin fine, deludendo, fa capire che non rappresenta nient’altro che un mero esercizio stile. E questo purtroppo e proprio il caso di Città Aperta, e non c’è nulla di più antipatico in letteratura, nulla, neppure la banalità da supermercato!, che la presunzione di una mente che si crede più fine delle altre e di una penna che si crede più scorrevole. Qui poi si ha addirittura una trasmigrazione della supponenza: è come se l’autore stesso, fin troppo calato nei panni del protagonista, volesse spiegarci che malgrado le apparenze, malgrado le sue umili origini e (diciamolo fino in infondo, poiché che lo si voglia o no il pregiudizio, soprattutto se nei confronti di se stessi, è lento a morire) il colore della pelle, lui è un uomo colto, che ha pensieri profondi e riesce a esternarli articolando frasi complesse…
Ma dove sta la profondità nella banalità? Dove sta la cultura nella ripetitività? Dove sta quel benedetto Io con la I maiuscola, tanto cercato da Cole, nella mondanità di parole ormai sulla bocca di tutti?
E non sono neanche sbagliati poi i suoi ragionamenti, non sono sbagliati i suoi pensieri o le sue sensazioni ma… sarebbe bastata una battuta, sarebbe bastato un aneddoto, una scenetta divertente per (rubando un termine ormai altrettanto modaiolo) sgrassare la narrazione; ma lui no, prosegue, intimo, profondo, delicato, fintamente perspicace e serio come la morte su temi che, boh va be, se ne sente parlare ogni giorno e una voce in più o una in meno…
E il precedente riferimento a Woody Allen qui non è casuale: questo è davvero un racconto di stampo fortemente Alleniano, ma rispetto alle opere dell’ autore/attore/regista ha una grande differenza, di fatto gli manca una cosa, una cosa che a giudizio di chi scrive è fondamentale! Cos’è? Be ormai si sarà capito: l’ ironia. In Città Aperta c’è una totale, endemica, assenza di ironia, e l’ironia in un libro del genere è essenziale per sdrammatizzare, e sdrammatizzare, sempre in un libro del genere, è essenziale, per mantenere uno sguardo lucido e obbiettivo sul mondo, la società e la vita. E poi, d’accordo che l’autore vuole dimostrare quanto è bravo ed intelligente, ma, pensateci bene, qual è quella cosa che più di ogni altra definisce e caratterizza l’intelligenza di un’ uomo evoluto? Quella cosa che contraddistingue la finezza di una mente e che molte volte ci fa apprezzare fin da subito una persona, per quanto magari non la si conosca ancora? Esatto, è l’ironia, la capacità ovvero di elaborare uno stimolo esterno, potenzialmente negativo, e trasformarlo in qualcosa di inaspettatamente diverso, in qualcosa di positivo e dunque soprassedere alla sventura, esorcizzarla, anzi infischiarsene, e in fine riderci sopra. Le altre specie (e alcuni esseri umani particolarmente gretti) non ce l’hanno questa capacità, loro rispondono esclusivamente agli istinti: hanno paura scappano, hanno rabbia attaccano, gli fanno un torto reagiscono; l’uomo moderno, il sapiens sapiens, specie se come quello di Cole è un intellettuale evoluto, dovrebbe essere capace di mitigare il proprio istinto e farsi ogni tanto una sana risata, o almeno, appunto, di stemperare la sventura con il sarcasmo, e invece no. Ciò che ne viene fuori è un individuo, fine, delicato, profondo e tremendamente pesante.
Pensateci ancora un attimo, non vi piace Allen? Lo considerate, specialmente il primo, troppo fanfarone? Ecco un altro esempio: cos’è che ancor’ oggi ci permette di apprezzare le opere (sì opere, poiché quando l’arte è vera trascende il genere) di Chaplin? L’ormai datato humor slapstick? L’ormai datatissimo “prodigio pirotecnico” di luci ed effetti che gli permette di vivere in una capanna in bilico su un precipizio o di trovarsi, per esempio, in due posti differenti prima nei panni di un uomo buono e qualunque, e poi addirittura in quelli del più cattivo della storia, Adolf Hitler? Certo che no, quello che ci permette di apprezzarli e, malgrado i decenni ormai trascorsi, renderli ancora attuali è l’ironia, la delicatezza e la lucidità con cui vengono trattati i temi più importanti della storia dell’uomo, temi di una tale gravità che senza quella scintilla che fa inaspettatamente nascere il sorriso nella tragedia, sarebbero in grado di schiacciarci solo col loro stesso peso. E non si parla di superficialità qui (come qualcuno potrebbe ribattere) ma piuttosto, di una sorta di imperitura, e forse per questo eroica, convinzione che l’uomo, il suo genere, malgrado riesca talvolta raggiungere delle bassezze indicibili, è tuttavia superiore: superiore alle sciagure, al destino, al tempo e perfino a se stesso! Quale dunque metodo migliore per dimostrare, per ribadire, la sua indomita natura se non riderci sopra, se non, delicatamente, umilmente, inavvertitamente, ogni tanto, riderci sopra?
Ma Teju Cole no: il suo protagonista è intelligente, profondo, squisitamente colto e… non accenna mai neanche a un mezzo sorriso, è totalmente pieno di sé, letteralmente perso nelle peregrinazioni del suo io cosciente, come uno specchio del suo stesso intelletto, nel suo struggle interiore, nel suo much ado about nothing! - Ok hai avuto un passato difficile, molto difficile? Ma guarda dove sei ora, - verrebbe da dirgli - guarda che cos’hai! Dovresti essere doppiamente felice visto che sei riuscito ad ottenere tutto da solo! - E invece no, lui non sorride mai, nessun personaggio sorride mai, l’autore non sorride mai, il libro non sorride mai, e il protagonista, così come la narrazione, così come l’autore, e così come il libro, alla lunga, diventano antipatici, tremendamente antipatici. Eddai ridi che ti fa bene, la vita è breve! Eddai Teju abbiamo capito il tuo intento, ma non sai che un sorriso tra le lacrime talvolta è più drammatico del pianto? Talvolta è anche più eroico, talvolta è persino più intelligente!
Attenzione non sto mettendo in dubbio che Teju Cole sia una persona dalla squisita intelligenza e un abile scrittore ma in questo suo semi esordio a tratti sembra talmente preso dalla circonvoluta complessità delle sue elucubrazioni che lui stesso pare dimenticarsene, e dimenticandosene, ogni riflessione, per quanto profonda e corretta, diventa pesante, ogni frase, parola e locuzione, per quanto appropriata, diventa un’auto compiaciuta dimostrazione di bravura. Bravura, ok indiscutibile, ma, sempre come si diceva, mal riposta e che alla fin fine trasforma quella che potrebbe essere un’opera originale ed illuminante nella solita utopica esternazione del disagio di un uomo medio nei confronti della società, nei problemi che il mondo sembra riversare su di lui e nella sua lotta interiore per non soccombere, in una vicenda insomma come tante, che non aggiunge nulla più a molte altre, e fa di un possibile buon libro un libro come tanti, un libro che, al pari di quella voce di cui si parlava sopra, tratta di cose di cui se ne sente parlare ogni giorno, e un libro più o un libro meno…
Teju, un consiglio spassionato infine, (fortuna che non leggerà mai questa recensione!), vuoi parlare veramente di questi temi in maniera innovativa, originale e personale? Leggiti la Macchia Umana di Roth!

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