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Il grande romanzo di un piccolo decadente (?)
Jay Gatsby è a mio parere uno dei grandi personaggi tragici della letteratura americana, che merita, sia pur con qualche distinguo, un posto accanto al Capitano Achab, al Clyde Griffiths di Una tragedia americana e a Martin Eden.
A questi ultimi due personaggi, in particolare, lo legano moltissime affinità: poveri, animati da un potente desiderio di riscatto sociale sublimano nell’amore per una donna il desiderio di essere pienamente accettati dalla società cui tentano di far parte. Tutti falliscono e soccombono al loro sogno. Certo ci sono anche molte differenze tra i personaggi citati, e ciascuno è protagonista di storie dai tratti originali, figlie del periodo in cui sono usciti dalla penna dei loro autori, ma un tratto li accomuna: essere assolutamente e inequivocabilmente figli della società statunitense, delle sue peculiarità e delle sue contraddizioni.
Gatsby giunge poco dopo gli altri due, appartiene all’età in cui il mito liberista inveratosi nel capitalismo statunitense raggiunse il suo acme, prima del grande crollo del ’29. Le armi che usa per la sua scalata sono quindi quelle della finanza e del contrabbando, simile in questo a tanti dei voraci uomini d’affari di quel periodo. Apparentemente ce l’ha fatta: è una sorta di faro della vita mondana di Long Island, le sue feste sono frequentate dagli esponenti di quello che in Europa si sarebbe chiamato demi-monde, attricette, arrampicatori sociali di ogni risma, semplici approfittatori. Sul suo passato e sul suo presente circolano, alimentate da lui stesso, svariate leggende. Gatsby però sa che tutto questo non avrà senso se non riuscirà a riconquistare Daisy, la ragazza che alcuni anni prima l’ha rifiutato – preferendogli il gretto razzista Tom Buchanan – perché appartenente ad una classe sociale inferiore. Daisy è l’equivalente più crudele e ipocrita della Ruth di Martin Eden e della Sondra di Una tragedia americana: rappresenta la donna borghese, pronta a sacrificare alla sua tranquillità sociale non solo il sentimento, ma anche la dignità: è infatti perfettamente consapevole dei tradimenti del marito, ma finge di non vederli per conservare il suo status.
La storia finirà naturalmente male, e Gatsby, cattiva coscienza della sua epoca e della società che essa esprime, verrà di fatto eliminato, per interposta persona, proprio da Tom Buchanan, con la tacita complicità di Daisy.
Fitzgerald ci regala due ultimi capitoli splendidi, nei quali affonda il coltello ancora di più nella piaga purulenta della ipocrisia e della mancanza di valori (escluso quello del denaro) della società americana del suo tempo, e nei quali emerge anche la figura del narratore, Nick Garrison, che tira la morale della vicenda di cui è stato coprotagonista. E’ naturalmente una morale amara ma, come spesso capita negli scrittori statunitensi, monca: anche Garrison/Fitzgerald infatti sembra dirci che l’unica possibilità di redenzione da questo mondo crudele sta nel ritornare ai buoni vecchi valori di una volta, all’America rurale dove tutto era più vero. Nick, infatti, abbandona il suo lavoro in borsa e il rutilante Est per tornare nel Middle West da dove era venuto, un poco compiaciuto di essere cresciuto nella casa dei Carraway, in una città dove le dimore sono ancora da decadi chiamate col nome di famiglia. Ci dice che in fondo tutti i protagonisti della vicenda erano del West, e quindi forse inadatti a vivere nell’Est. Sembra che neppure Fitzgerald sfugga al grande limite culturale statunitense: pensare che non esista altro al mondo che gli Stati Uniti d’America, che i valori che questa terra esprime siano i soli da cui partire per la soluzione di ogni problema. Non lo sfiora neppure l’idea che forse il capitalismo dell’Est e il mondo rurale del Middle West sono le due facce di una stessa medaglia, che l’uno non potrebbe esserci se non fosse stato preceduto dall’altro, e che forse è l’insieme dei valori che questa terra esprime che dovrebbe essere messo in discussione. Da questo punto di vista ritengo più crudi e disperati i romanzi di London e di Dreiser a cui ho accostato Il grande Gatsby, li ritengo più universali e meno americani.
Fitzgerald scrive infatti Il grande Gatsby praticamente negli stessi anni in cui in Europa scrivevano Kafka, Musil, Proust, Broch, Svevo e molti altri. Mentre in questi autori (e in molti altri) al senso della catastrofe non si accompagnano certezze circa il “come uscirne” è comune a chi sta al di là dell’Oceano avere sempre una sponda interna cui attraccare. Avesse scritto in Europa, Fitzgerald sarebbe forse stato classificato come piccolo decadente.
Per finire, voglio condividere la tristezza di leggere un romanzo di questo spessore nell’edizione “I miti” Mondadori, dove tutto, a partire dalla copertina, comunica la decadenza dell’editoria berlusconizzata: non c’è introduzione, postfazione o commento. Non c’è neppure un indice! Fortunatamente le esigenze di risparmio hanno portato a utilizzare la classica traduzione di Fernanda Pivano, che seppur da molti criticata a me è piaciuta parecchio.
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