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The Ghost of Tom Joad
Chiudiamo gli occhi e proviamo ad immaginare.
Una tempesta di polvere, un disastro ecologico di grandi proporzioni, favorito da decenni di avido sfruttamento della terra.
Un esodo, una massiccia migrazione, che dalle terre inaridite conduce migliaia di famiglie verso una speranza di lavoro, cibo, sopravvivenza.
Un sistema finanziario e bancario che per sopravvivere deve continuare ad alimentarsi anche quando la terra diventa sterile per umana insipienza e ingordigia, anche quando gli uomini non hanno di che mangiare e pagare le tasse, anche quando le famiglie digiunano e non hanno più casa.
Un muro compatto di funzionari, impiegati, operai, commercianti, piccoli risparmiatori, pensionati e poveri diavoli: per sfamare se stessi e le loro famiglie seguono senza colpa le fredde leggi di un sistema in base al quale gli appetiti servono unicamente ad alimentare nuovi e più grandi appetiti e dove chi si accontenta non gode, ma soccombe e lascia spazio al più forte, al più fortunato, al più ingordo, al più veloce.
Una terra ricca e fertile, un’agricoltura che è diventata commercio e industria e poi finanza. Un mondo di benessere che attrae, che richiama, che ha bisogno di braccia, tante braccia, e più sono e meno costano, dunque occorre chiamare uomini, donne e bambini da lontano, molto lontano, abbagliati dal miraggio e disposti a tutto.
Una moltitudine in movimento che varca confini e occupa spazi, che ha fame e non ha soldi, che è primordiale nei suoi bisogni e dunque appare rozza, brutale, sporca, minacciosa, infetta.
Una comunità sotto assedio, che teme per il proprio lavoro, la propria casa, la propria salute, la propria sicurezza, le proprie donne, la propria identità e il timore diventa paura e la paura diventa odio e l’odio diventa pregiudizio e l’ignoranza propaga il pregiudizio, l’odio, la paura.
Chi ha paura cerca una difesa. Contro la sporcizia, contro le malattie, contro la criminalità, contro il pericolo venuto da lontano. Occorre stringersi, unirsi, armarsi, vigilare, respingere.
E c’è, soprattutto, l’inesorabile legge della domanda e dell’offerta che regola il mercato, il delicato meccanismo che per essere mantenuto tonico ed efficiente deve fondarsi sullo spreco, sulla deliberata distruzione di parte del raccolto per tenerne alto il prezzo.
Ma sacrificare i frutti della terra in nome del dio denaro, mentre gli uomini non hanno di che sfamarsi, significa commettere azione empia verso la terra e verso gli uomini. E‘ una ubris che aspetta di essere risarcita, e infatti i grappoli d’uva lasciata marcire sui tralci diventano grappoli d’ira, collera, furore.
Ora possiamo riaprire gli occhi. Dove abbiamo visto tutto questo?
Queste immagini, queste scene che potrebbero essere cronaca del XXI secolo fanno da sfondo e da ambientazione ad un grande romanzo scritto settantacinque anni fa e ancora in grado di competere in attualità, forza e incisività con tante inchieste, ricerche o riflessioni contemporanee.
John Steinbeck scrisse Grapes of Wrath nel 1939, dopo aver studiato la condizione di vita dei contadini dell’Oklahoma a metà degli anni Trenta del secolo scorso, quelli che seguirono la Grande Depressione e sconvolti dalla Dust Bowl, il cataclisma che li fece migrare in massa verso ovest, alla disperata ricerca di lavoro.
La storia della famiglia Joad, del suo viaggio della speranza lungo la Route 66 vuole riassumere e rappresentare l’epopea di un’intera generazione di agricoltori e favorire la denuncia di “un’economia che uccide” , come dice Papa Francesco. Se “Nutrire il pianeta, energia per la vita” (tema di Expo 2015) ci sembra un obiettivo oggi tanto utopico quanto urgente e necessario, è segno che in questi decenni ancora tante famiglie Joad in ogni parte del globo hanno intrapreso con diverse fortune il loro viaggio della speranza.
Pagine che scorrono veloci, parole che pungono, personaggi che rimangono impressi. Tra tutti, mi piace ricordare due donne. L’immensa Ma’, vero centro di gravità della famiglia, titanica e bellissima nel suo impossibile sforzo di tenere unita la famiglia e nel difenderne valori e dignità, e la piagnucolosa Rose of Sharon, a cui spetta l’onore della scena finale del romanzo, perché anche i deboli talvolta trovano nelle avversità qualche occasione di riscatto.
Storia che scava, che colpisce, che ispira (John Ford, Woody Guthrie, Bruce Springsteen) e che continuerà a parlarci a lungo. “Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutti i posti … dappertutto dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì …. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì … e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito … be’, io sarò lì”.
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@Emilio, se ho capito bene ti riferisci a ciò capita nelle ultime pagine, poco prima della fine (e che non riveliamo per non cadere nello spoiler). Forse ha ragione, ma dopo un viaggio lungo seicento pagine c'era bisogno di un finale in crescendo. Nulla rispetto agli espedienti che insegnano ormai in qualsiasi corso di "scrittura creativa" per far raccontare storie anche a chi non ha nulla da dire...
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Anche a me il libro è piaciuto parecchio: l'autore ci fa precipitare in una realtà di estrema durezza e sa condurci fino al termine della storia caricandoci di quella apprensione che ci fa andare avanti nella lettura.
L'unico rimprovero è che qualche (rara) volta usa come espediente un calcare la mano non necessario nell'aggiungere magari un particolare di troppo (ad esempio nell'episodio della pioggia con alluvione...).