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Un'iniziazione in piena prateria
L'epica del viaggio e della ricerca di sé.
Texas, 1949. L'interno di un bar. Dall'ultimo colloquio con il padre, il giovane John Grady Cole capisce che il livello di sfascio cui è giunta la sua famiglia è irrimediabile.
Non lascia passare un giorno: sella il proprio cavallo, prende quel che gli serve e si avvia lentamente verso la frontiera con il Messico. Lo accompagna Lacey Rawlins, suo cugino, che ha altrettanta voglia di lasciarsi tutto alle spalle, senza rimpianti.
Giorno dopo giorno, tirando dritto in direzione dell'orizzonte, i due varcano il confine e proseguono. Fino a trovare un'occasione di lavoro in una “hacienda”, dove John può far valere tutte la sua perizia nell'addomesticare cavalli selvatici.
Cormac McCarthy conosce bene i posti che racconta (vive a El Paso, dove si è messo volontariamente al riparo dagli “inconvenienti” del successo). Il suo stile asciutto si adatta a meraviglia al paesaggio ispirato e senza confini del libro. Dove campeggiano dialoghi scheletrici, dai quali però il lettore ricava tutto quel che serve, e persino qualche sorpresa.
Una storia fatta di spazi, di polvere alzata dal vento, di uomini che sanno qual è il proprio posto.
Tra essi procedono al passo due ragazzi, John di 16 anni e Lacey di 17, che invece il loro posto lo stanno cercando. E ben presto si unisce a loro Blevins, ancora più giovane, ma proprietario di uno splendido baio e di una Colt che, con orgoglio, tiene nel cinturone.
Tutto ciò prima del racconto della violenza, che in McCarthy è frequente perché appartiene all'uomo: stavolta non si tratta della violenza glaciale e paranoica di Anton Chigurh (l'antagonista di “Non è un paese per vecchi”, recente bestseller dello scrittore statunitense), ma di quella che scorre nelle vene dell'uomo e del west, nei paesini ventosi del Messico come nella fetida prigione di Saltillo.
Il sangue e i coltelli, ma anche l'amicizia e l'innamoramento. “Cavalli selvaggi” è un inno alla capacità di domare i cavalli, gli uomini e, alla fin fine, i propri istinti. Non sarà il miglior McCarthy ma di certo, in questo suo primo romanzo, ci sono già i temi ed i tratti che ne contraddistinguono la scrittura.
Solo una volta egli devia dalla predilezione per i sottintesi e le poche parole: nel colloquio di John con la zia di Alexandra, che presto diventa un monologo della vecchia signora. Dopo aver salvato il ragazzo da morte certa, ella gli spiega perché non potrà tornare alla “hacienda”: questo le costerà il dover raccontare la propria storia e fin dove saprebbe spingersi – a danno di John – per il bene della sua prediletta nipote. Probabilmente, il momento più significativo del libro.
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Commenti
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I contenuti potrebbero magari coinvolgere meno... ma non è detto.
Leggibilissimo.
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