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Blu, rosso e verde
In “Tabù” di Ferdinand von Schirach, la storia di Sebastian Eschburg scorre dall’infanzia alla maturità attraverso le pagine di un romanzo coinvolgente nelle premesse, ma che spiazza nel finale.
Sebastian è un bambino molto legato al padre, un uomo problematico (“Il padre puzzava di alcol, aveva l’aria stanca”), che ha una relazione clandestina in Austria, ove si reca per cacciare. Il piccolo adora la sua casa “tra Monaco di Baviera e Salisburgo… la casa in riva al lago”, ma proprio lì è testimone di un suicidio che mina per sempre la sua vita (“Non distingueva tra storie e realtà”). Studia in collegio e, nelle vacanze, assiste alla nuova relazione che la madre instaura con l’amante, chiamato Artefice (“Quando Sebastian ebbe compiuto sedici anni, sua madre gli presentò il suo nuovo compagno”). Dalla madre si allontana (“Ebbe l’impressione che tra lui e sua madre si fosse alzato un muro”), anche perché rimane profondamente turbato dalla vendita della casa di famiglia (“Un uomo senza la sua casa è perduto”): un’esperienza traumatica che si aggiunge al vissuto già compromesso. Inutile tornare sul luogo dell’infanzia, la casa non esiste più (“Riservato ai soci del golf club”).
Gli anni passano e Sebastian diventa un fotografo di nudi di successo (“… forse è da lì che è nata l’opera Gli uomini di Maja”), ma incontra numerose difficoltà relazionali (“Capì che non c’era più niente da dire, perché era passato troppo tempo e perché non c’erano più la casa sul lago e i giorni pieni di luce”).
Quando il fotografo viene incolpato di un omicidio atroce, dimostra totale indifferenza per l’accusa che gli viene rivolta (“Eschburg era accusato di avere sequestrato e ucciso la sorellastra, il cui cadavere non era stato ritrovato”) e rilascia una confessione sottoposto alle pressioni fisiche della polizia.
S’interessa di lui uno strambo avvocato, Konrad Biegler, (“Trovo interessante il suo caso, ma non per il presunto cadavere scomparso e tantomeno perché lei è un artista famoso. A me del suo caso interessa solo la questione della tortura”), che dimostrerà l’innocenza del suo assistito in tribunale, con una rappresentazione che lascia tutti a bocca aperta (“Ma perché tutta questa messa in scena? ...Non tollerava più nulla tra sé e il quadro. Tiziano dipingeva con il suo stesso corpo”)…
Il romanzo assume il cromatismo (“Lui pensava per immagini e colori, non con le parole”) e l’arte di Goya (“… Mi ricorda Goya. Anche lui aveva fatto la stessa cosa, aveva dipinto i suoi incubi sulle pareti della sua casa di campagna, le cosiddette Pitture nere: ce n’è una in cui saturno divora i suoi figli”) come registri narrativi; la vicenda è molto metaforica nel contestare la violenza di accuse costruite con metodi rozzi e disumani, che pretendono di estorcere la verità (“La bellezza non è la verità… La verità è brutta, puzza di sangue…”) a partire da indizi apparenti (“La verità e la realtà sono due cose completamente diverse”). Lo scopo è apprezzabile, ma forse disorienta il lettore con un eccesso di simbolismo (Senja Finks… “Sfinks, sfinge… una figura femminile con corpo di leone alato che divora chi non risolve i suoi enigmi”).
Bruno Elpis