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Il male che ci portiamo dentro
Nell’estate del 1944 è in corso una guerra nella guerra. Un conflitto silenzioso tra gli esseri umani che, mentre combattono tra loro, affrontano un nemico subdolo e letale, impossibile da sconfiggere se non dal tempo. La poliomielite, tremenda malattia che paralizza il corpo e porta in alcuni casi alla morte, miete vittime a Newark, New Jersey. Essa mostra al protagonista Bucky Cantor e ai bambini ai quali insegna educazione fisica al parco giochi, la terribile prospettiva della morte. Uno ad uno molti bambini si ammalano, altri muoiono, e nessuno di loro merita tale destino inclemente. Un nemico invisibile striscia tra le pagine di quest’opera tragica di Philip Roth. Nemico che ti sbatte sulla faccia l’ingiustizia della vita, di fronte alla quale nasce l’impotenza e il desiderio di non rimandare le scelte importanti e la felicità che si può avere oggi, a domani. La morte è inclemente e non conosce età né bontà d’animo, colpendo chi vuole e quando preferisce, senza fare distinzioni tra il vecchio e il giovane, tra il buono e il malvagio. La polio stermina i bambini mentre la guerra fuori imperversa e miete altre vittime, anch’esse prive di colpa. Figure che sul campo di battaglia, agli occhi del nemico, appaiono come figure senz’anima, da abbattere in nome dei presunti ideali di una nazione. Ognuno di quei capri guerrieri offerti in sacrificio ha alle spalle una storia, persone che lo amano e che egli ama, persone che abbandona in una guerra che crede sua eppure non lo è. Vite spezzate che, se analizzate e valorizzate debitamente una ad una, accumulando la tragedia personale di ogni esistenza, centuplicano il valore delle morti, delle perdite, rendendo il ricordo del conflitto mondiale più sanguinoso e triste di quanto non sia già. Il rimorso permea le pagine di questo triste romanzo, rimorso che porta a un sacrificio superfluo e perfino inutile e masochista. Storia che ritrae un male del quale non possiamo liberarci, non importa quanto lontano si possa fuggire dalla presunta fonte. Esso ci raggiungerà sempre, perché ce lo portiamo dentro.
“[…] ho perso l’abitudine di imprecare contro il mio destino. Ho capito che a Weequahic nel 1944 avevo vissuto una tragedia sociale della durata di un’estate che non dovesse necessariamente diventare una tragedia personale della durata di una vita.”
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Grazie, Pia.
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