Dettagli Recensione
Orogenesi dell'audience
Il lettore, l’assiduo praticante della carta stampata e degli abissi e degli intrecci e delle vicende, acquisisce inevitabilmente delle competenze. È trasportato in perpetuo verso un incremento esponenziale, più o meno lento, della coscienza e del ragionamento sul gusto. Se è esatta l’evocazione artaudiana dell’uomo che si « conquista per schiarite successive » è forse altrettanto vero che una spinta all’avvenire di queste schiarite può provenire dalla letteratura e dalla sua linfa. Ci sono libri, qualsiasi sia la loro natura formale, che nella loro conformazione compatta riescono a conficcarsi talmente tanto opportunamente, profondamente e precisamente nella distesa di supponenze (e acquisizioni) da arrivare a sfiorare direttamente il nostro Primo Strato. Un Primo Strato che è, inevitabilmente, la base primigenia ed elementare di una geologia stratificata e personale. La prima delle tante coperte che indossiamo, l’infarinatura, il requisito minimo, fondazione ingenua e in espansione di una cultura letteraria in nuce.
Il nuovo McEwan, entrando nello specifico, è una punta di freccia silicea, compressa, vitrea, dura, affilatissima e simmetrica. Proviene dall’oltremanica senza emettere alcun sibilo, fende carni e roccia e si deposita sotto il mantello che indossiamo, là dove ogni lettore (o meglio ogni essere alfabetizzato) non fatica a riconoscere il magistero di eleganza e correttezza di chi sa fare indiscutibilmente il proprio mestiere.
“La ballata di Adam Henry” è questa freccia. Come mi capita spesso di dire, lo Chef d’oeuvre è ben lungi dal palesarsi. Ma non è nemmeno misurabile – come la stragrande maggioranza delle opere letterarie odierne – con un metro assoluto, onnicomprensivo e super partes. È, relativamente, però, in grado di situarsi in un luogo, nei nostri interni, apparentemente in sua attesa. Sembra quasi sia stato studiato per riempire alla perfezione un alloggiamento appositamente creato e appositamente pronto ad accoglierlo. Un’infinitesimale sensazione di pienezza, il “click” noetico più soddisfacente che ci avverte di un avvenuto, microscopico, accadimento indotto. Ed è un ingranaggio che scatta perché quella che narra McEwan è una storia di tutti. Di tutti perché rifugge il semplicismo illustrativo delle storie adolescenziali e delle croci che si portano appresso, perché rifiuta la catalogazione dei più frusti paradigmi della crescita. Perché va oltre e mostra, grazie ad Adam Henry, diciassettenne leucemico che rifiuta le cure in nome dei dogmi di Geova, il bisogno d’amore, di attenzione disinteressata che ha smesso di essere appannaggio esclusivo dell’adolescente per divenire universale. Il surmoderno è un luogo tetro e non sono solo gli Adam Henry ad avere bisogno di due orecchie che ascoltino e di due braccia che confortino. Oltre alle diatribe ideologiche, etiche, religiose, oltre ad un immenso paraocchi fatto di paraocchi, ci siamo tutti quanti in quel letto, non leucemici ma comunque mendicanti.
Ma le tinte fosche di un’interpretazione (chiedo venia) magari errata non debbono oscurare un messaggio ben più lucido e illuminato, quello di McEwan che tenta di porci davanti a una lezione basilare, importantissima e tanto poco scontata in quanto data per scontata. Ascoltare, ascoltare e ascoltare. E poi ascoltare ancora e ritardare, procrastinare la parola e farla giungere solo quando si è perfettamente sicuri di aver compreso le parole di chi ha parlato. Quelle del giudice Fiona Maye sono anche le nostre orecchie in questa vicenda. Sono le orecchie di una sessantenne in crisi coniugale, sono orecchie che stanno ai lati di un cervello brillante ma sovraccarico, che doneranno attenzione ad Adam, che lo sentiranno suonare stentatamente le note di una malinconica romanza di Britten, che lo sentiranno pontificare sul volere divino di Geova. Fiona farà il suo mestiere con la medesima competenza dell’autore da cui essa è nata. Entrambi coglieranno i frutti e constateranno quali conseguenze avrà portato il loro agire. Per quanto riguarda le conseguenze dell’agire di McEwan, si dà il caso che siamo precisamente noi lettori a deciderle. Noi riscontro pubblico, noi audience stratificato, noi persone che ricaviamo le nostre conclusioni e i nostri accrescimenti, le nostre teorie, le nostre vanità che abbiamo voglia di urlare ai quattro venti per soddisfarci, gonfiarci ed ammiccare. Noi che a nostra volta, come tutti, necessitiamo con impellenza di un pubblico per vivere, animali sociali incorreggibili e spesse volte in-corretti. Un pubblico che annuisce, acquiescente e benpensante, o che arriccia il naso di fronte alla proiezione di sè stesso. Ma il moralismo è un cacciatore abilissimo, ed è tempo si sfuggire alla tagliola. Parlino gli altri. Parli Palahniuk, e con esso parli David Fincher. Ce lo ripetano altre mille volte quanto sia importante trovare qualcuno che ci sappia ascoltare e che, invece, non finga mentre aspetta il suo turno per parlare. Non basta mai. Come non bastano mai queste storie, che con porzioni cronometriche e ipperrealiste di realtà fittizie – equipollenti ad altre che di falso non hanno nulla - si rivelano come gli ultimi baluardi di civiltà, umanità e principi ormai desueti.
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bello il parallelo con la freccia
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Dell'autore, io sono rimasto a "Espiazione".