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Un romanzo ad alta gradazione
Il Charles Bukowski fotografato in “Post office” reca il nome di Henry Chinaski e sfugge alla vita del clochard facendosi assumere come supplente in un apparato del sistema produttivo capitalisticamente ispirato a regole rigide ed efficienza.
Naturalmente, lo spirito ribelle dello scrittore insorge e confligge con i responsabili che di volta in volta cercano inutilmente di piegare il Buk al rispetto delle regole.
Il mestiere viene svolto in un’epoca molto diversa dall’attuale: le mail non esistevano, ma alcuni passaggi del romanzo riflettono situazioni che ancora oggi viviamo, quando svuotiamo la casella delle lettere invasa da scampoli di Amazzonia sacrificata (“Non era colpa mia se usavano il telefono e il gas e la luce e comperavano tutto a credito”).
Dopo un primo licenziamento maturato nell’insofferenza al sistema, Chinaski decide di tornare all’impiego postale nonostante la sua fedina opaca (“Mr. Chinaski. La sua situazione giudiziaria è terribile. Vorrei che mi spiegasse il perché di tutti questi fermi, e se possibile giustificasse la sua attuale posizione presso di noi”) per evitare le critiche di parassitismo provenienti dalla famiglia della moglie Joyce, miliardaria e ninfomane che costringe il Buk e veri e propri tour de force del sesso.
Poi il matrimonio naufraga, Chinaski passa da un rapporto all’altro con una concezione della donna (“Le donne erano destinate a soffrire, non c’era da meravigliarsi che volessero sempre grandi dichiarazioni d’amore”) decisamente criticabile e di fatto criticata dalle femministe europee (“Non è una novità che le donne ti si appiccicano addosso e non ti mollano più”), sino a cadere nelle braccia di Fay, che gli regala una figlia. Ma anche la paternità viene affrontata con svagata disinvoltura (“Dopo un po’ ricevetti una lettera di Fay. Lei e la bambina vivevano in una comunità hippie del New Mexico”).
Tra un’ammonizione e l’altra, tra corse di cavalli e un funerale (“Ero andato alle corse anche dopo gli altri due funerali e avevo sempre vinto… un funerale al giorno e sarei diventato ricco"), Chinaski matura la decisione: dopo un periodo d’aspettativa (“Le poste mi hanno trattato bene. Ma ho assolutamente bisogno di tempo per curare certi miei interessi”) nel quale dà libero sfogo alla sua natura senza il fastidio del lavoro (“Era una bella vita e cominciai a vincere davvero”), e dopo undici anni di (dis)onorato servizio, il postino si licenzia in via definitiva. Il Buk ha cinquant’anni suonati e lascia il certo per l’incerto…
“Post office“ rimane un’opera fondamentale per ritrarre l’icona dello “sconvolto” (“Ricominciai coi giramenti di testa. Li sentivo arrivare. Vedevo il casellario girare vorticosamente”) che tanta presa avrà su molte generazioni coeve e successive.
Bruno Elpis
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Ciao Ale, grazie per il tuo commento :-D
Sulle ballate non mi esprimo ;)
Ciao Bruno!
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