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Tra tragedia e banalità
Sono stato invogliato a leggere questo libro sia dal giudizio lusinghiero del premio Nobel Orhan Pamuk, il quale sostiene che l'autrice del romanzo, Elif Shafak, sia la "migliore scrittrice turca dell'ultimo decennio”, sia dal tema affrontato: la questione armena, il genocidio compiuto all'inizio del secolo scorso nell'impero ottomano, che la Turchia continua a negare, tanto che anche Elif Shafak subì un processo per offesa all'identità del Paese per essersene occupata, ottenendo comunque l'assoluzione.
Considerando i giudizi lusinghieri e i numerosi premi e riconoscimenti ottenuti dalla Shafak, alla fine sono rimasto molto deluso.
La storia si apre con una ragazza diciannovenne, Zeliha, che in minigonna, tacchi a spillo e camicetta attillata "per sottolineare il seno abbondante", incurante del temporale estivo attraversa Istanbul per andare ad abortire. Non senza aver fatto prima una sosta al Gran Bazar, dove acquista un servizio da tè (che immagino sia precisamente la cosa che viene in mente di fare quando si sta andando ad abortire). Ovviamente non può risparmiarsi le occhiate libidinose dei suoi concittadini allupati e anche un tentativo di abbordaggio in stile "B movie" da parte di un tassista che la scrittrice tratteggia alla grossa, livellandosi senza alcuna fantasia allo stereotipo del molestatore tanto volgare quanto innocuo.
L'aborto non avviene grazie anche a una provvidenziale preghiera del muezzin che irrompe da una moschea vicina. La ragazza rientra a casa e, dopo essersi saziata con vari e abbondanti intingoli, decide di gettare la sassata contro nonna, mamma e tre sorelle, rivelando tutto insieme: verginità perduta, gravidanza in corso e progettato aborto, presentandosi subito come la componente ribelle e disinibita del gineceo in cui vive.
A questo punto la scena si sposta in un supermercato americano, dove una giovane donna lotta contro il suo istinto a compensare le proprie numerose delusioni (il matrimonio fallito, l'abbandono dell'università e una vita da precaria) con tentazioni gastronomiche di vario tipo. Si imbatte nel fratello di Zeliha e, saputo che è di Istanbul, cerca "disperatamente di ricordarsi dove diavolo fosse Istanbul. Era la capitale dell'Egitto, o forse stava da qualche parte in India...Aggrottò la fronte perplessa." (sic!)
Per 250 pagine il romanzo procede così, con un'irritante sfilza di banalità e luoghi comuni e personaggi da serie televisiva della peggior specie.
Poi si incontrano sorprendentemente venti pagine molto intense, nelle quali si entra nel vivo della questione armena.
A partire da questo punto il romanzo ha una svolta e trova un suo perché. Alcuni personaggi acquistano drammaticità e ci sono delle sorprese, anche se ottenute a buon mercato, utilizzando qualche secchiata di tinte forti. E c'è anche uno stucchevole compiacimento nel voler chiudere i cerchi a tutti i costi, cercando coincidenze ad effetto, al limite della pedanteria.
Per il solo merito di aver parlato della tragedia del popolo armeno, sono stato tentato dall’attribuire almeno una stiracchiata sufficienza a questo romanzo, ma la sfilza di banalità e di sciatteria che ci propina proprio non me lo consentono. Anzi, viene il sospetto che si sia cercato deliberatamente lo scandalo per motivi di cassetta. Detesto l’anticonformismo peloso molto più del bigottismo.
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Se questa fosse la prima della classe dell'ultimo decennio letterario nazionale, saremmo molto diffidenti sulle giovani scrittrici turche.
Forse non l'ho nemmeno finito, l'ho chiuso e son corsa a scambiarlo su internet :-)
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