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La dolente esistenza
L'io narrante Nick Carraway racconta, in questo romanzo del 1925, l'intera parabola del ricco (e incompiuto) Jay Gatsby. Ne diventa amico nel momento più alto – quando ciò significa finire nella lunga lista dei partecipanti alle sue feste – ma pian piano conoscerà anche il suo passato, fatto di anonimato e desiderio di riscatto, e il futuro che gli resta.
Passato e futuro che hanno lo stesso nome: Daisy, la cugina di Carraway, la donna che poteva fare parte della sua vita (e della cui vita avrebbe potuto far parte) e che invece il “grande” Gatsby si troverà a rincorrere quando i loro destini – o almeno quello di lei – sembreranno irreversibilmente consolidati.
La ricchezza inseguita e raggiunta, lo sfarzo di quella casa che – quando la servitù ne accende le luci all'esterno – è “qualcosa di mai visto prima” , sono tutti tentativi di riempire i vuoti della propria vita, ambiziosa ma – in fondo – interiormente irrealizzata. Ugualmente per quella continua ricerca di persone adoranti di cui circondarsi. Tutti tentativi di riconquistare l'amata Daisy ed escludere dal triangolo amoroso Tom Buchanan, il marito vincente e spaccone della donna, altro prodotto dell'ideologia (all'epoca ancora esclusivamente americana) del “self made man”... tentativi di ritrovare la magia di un momento ormai passato, e che – ammonisce il narratore – non potrà mai tornare sotto le stesse sembianze avute un tempo.
Sinceramente non pare che a rappresentare il punto di forza di questo romanzo sia la trama, almeno non a rileggerlo oggi: varie storie richiamano sia l'intreccio che il messaggio riportato da Fitzgerald ne “Il grande Gatsby” (una di queste, che sviluppa all'ennesima potenza il tema della “arrampicata” sociale dettata dalla voglia di riscatto è quella del magnate Charles Kane nel film “Quarto potere” di Orson Welles: non si tratterà in tal caso di un amore negato, ma, se ci si pensa, di qualcosa di ancora più profondo e intimo). E' vero che molte di tali storie sono state scritte o sceneggiate successivamente al libro di Fitzgerald, ma anche Jay Gatsby ha qualche precursore.
Quel che pare originale, invece, è qualcosa che possiede non il dolente protagonista del romanzo, bensì il suo creatore: uno stile che, pur soffermandosi sul “provincialismo metropolitano” dell'America di quegli anni (sembra un'espressione in sé contraddittoria, ma non lo è affatto), è decisamente ricco e magnetico, sebbene fresco e rapido (nella splendida traduzione di Fernanda Pivano).
Personalmente, ritengo che il lettore finisca per non immedesimarsi in alcuno dei personaggi (salvo avere “rispetto” per l'obiettività dello sguardo di Carraway), ma si trova a godere di una lettura davvero appagante – e dunque consigliabile – da un punto di vista stilistico.
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In questo caso mi piace il commento... "fuori dal coro". E' da un bel pezzo che mi sento in colpa per non aver letto questo romanzo e il tuo giudizio, positivo ma senza enfasi, un pochino conforta e rinfranca la mia ignoranza.
Ma sai una cosa? Credo che sia proprio impossibile scindere il binomio tra l'America e questo tipo di storie. Ci pensavo anche qualche giorno fa, dopo aver rivisto il DVD del film Wall Street.
Come la giri e coma la volti, la letteratura e il cinema americano, sono sempre lì a parlarci dello stesso sogno, di chi ce l'ha fatta e di chi non ce la fatta, di quanto è solo chi ce l'ha fatta e di quante possibilità di riscatto ha chi non ce l'ha fatta; di quanto il vincitore può essere romantico dopo aver assaggiato il calice amaro della sconfitta o di quanto sarà maledetto per aver venduto parte di sè per realizzare il proprio sogno.
E' il medesimo sogno a cui noi europei guardiamo talora con sufficienza, talora con invidia, talora con ammirazione: è difficile che ci lasci del tutto indifferenti.
E' per questo che non riescirò a sottrarmi all'"imperativo morale" di leggere il Grande Gatsby!
A Raffaella:
troppo buona: in realtà ho inserito appena qualche aggettivo per far percepire la bravura stilistica dell'autore. Sotto questo aspetto il libro è veramente bello: quando esprimo il mio giudizio in voti, quello sullo "stile" è il parametro su cui più difficilmente arrivo al massimo voto. Ma Fitzgerald il 5 pieno lo merita... probabilmente leggerò altri suoi libri (questo per me, era il primo) soltanto per questo motivo.
A Neri e Pierpaolo:
siamo d'accordo, mi pare: quest'opera non è un capolavoro. Ci sono motivi solidi, tuttavia, per gustarsela. Personalmente, la consiglierei soprattutto a chi scrive. E comunque - come tu dici, Pierpaolo - va messa in lista di lettura per la prima occasione buona.
Trovo assolutamente giusta la tua osservazione sul "chiodo fisso" della letteratura statunitense, una letteratura che non mi fa impazzire (sia per gli autori "storici" che per quelli oggi più alla moda): va riconosciuto, tuttavia, che raggiunge quell'intento di caratterizzarsi che altre letterature non raggiungono... prendi un libro senza aver guardato la copertina e, dopo un paio di pagine, puoi dire che è un autore americano...
"è già qualcosa": verissimo.
A Cristina:
non che la storia non sia anch'essa da gustare... quel che volevo dire è che potrebbe avere il sapore del già sentito.
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