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“Quattro litri di aceto bianco...”
“Tre giorni dopo che zia Valérie era arrivata a casa nostra, ho capito che mi odiava”.
Le lucide impressioni di Jérôme, bambino di sette anni, rendono questo romanzo ricco di spunti di riflessione sulla varietà dei rapporti che si instaurano tra gli esseri umani e in particolar modo tra genitori e figli.
Jérôme - lo si capisce quasi subito – è amato e accudito, ma per certi versi trascurato e lasciato a se stesso da genitori troppo impegnati nell'ambito del commercio: la madre ha una merceria proprio sotto il loro piccolo appartamento, il padre vende e acquista tessuti girando per le fiere.
L'arrivo in casa della zia grassa e bisbetica, che occorre tenersi buona per questioni di eredità, sconvolge gli equilibri domestici esacerbando situazioni già precarie.
Il bambino dovrà cedere la sua stanza e condividere con la donna gran parte della giornata, che passa guardando da una finestra che si affaccia sulla piazza del mercato (di rado va a scuola).
La parte migliore del libro è proprio l'analisi dello stato d'animo di Jérôme e del bisogno d'affetto che lo spinge a crearsi un amico quasi immaginario: il bambino malato dell'appartamento di fronte, a cui non ha mai rivolto la parola.
Nulla sfugge alla sua acuta intelligenza, neppure l'atmosfera pesante causata dagli scioperi che imperversano nella cittadina normanna, disordini che culmineranno in un attentato: “...tutto era nero, ostile, malvagio...”.
Notevole anche la piega proustiana che prende la narrazione quando si rievoca un giorno felice attraverso parole apparentemente insignificanti: “Quattro litri di aceto bianco...”.
E' uno di quei giorni in cui il protagonista va a fare compere con la madre, figura descritta con vago disprezzo nelle prime pagine ma che in quell'occasione di relativo svago sembra riabilitarsi diventando oggetto d'amore.
Null'altro da segnalare in un romanzo sicuramente ben scritto (impeccabile la descrizione della piazza del mercato sotto la pioggia e di certi personaggi) ma che dà una sensazione di incompiutezza e non può annoverarsi tra i migliori di Simenon.
Si accenna spesso a qualcosa che sta per accadere ma di fatto succede poco, si citano episodi futuri di una certa rilevanza che non verranno mai sviluppati, come se lo scrittore avesse lasciato il lavoro a metà con un finale affrettato.
“Continuava a piovere...”, si ripete spesso, e la monotonia della pioggia, sia pure con qualche schiarita, finisce per insinuarsi anche tra le pagine compromettendo il piacere della lettura.
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