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La foresta
Il prolifico Lansdale scrive, con ‘La foresta’, un romanzo di formazione - non è un caso che uno dei personaggi legga con insistenza Mark Twain – riprendendo un tema per lui non certo nuovo, ma il libro si fa ricordare in particolar modo per il suo essere un western. Si tratta di una storia di frontiera di certo crepuscolare, perché vi circolano ormai le automobili come ne ‘La ballata di Cable Hogue’, ma anche assai brutta, sporca e cattiva nonché lontanissima dall’iconografia tradizionale. Nulla di nuovo, per carità, ma la narrazione è ravvivata da una grande abilità di scrittura: le esplosioni di violenza da McCarthy incattivito si alternano agli spunti sorridenti o addirittura comici in un mondo in cui la sporcizia domina (qui non si lava mai nessuno e si può solo immaginare la situazione igienica dei personaggi alla fine della vicenda) mentre con le pesanti pistole in dotazione nessuno riesce mai a colpire nessun altro a meno che la distanza sia minima o intervenga il caso. Il tutto ambientato in un Texas raccontato come un postaccio: se all’est si assommano vaiolo e delinquenza, al nord non vivrebbe nessuno sano di mente (anche perché vi circolano dei Comanches da far impallidire Tarantino) e nel centro vi sono paesi che sono il buco del culo del mondo. In queste belle lande, il giovane Jack va alla ricerca della sorella Lula rapita da tre brutti ceffi che più brutti non si può e che fanno fuori anche il nonno predicatore dopo che l’epidemia ha ucciso i genitori: Per farlo arruola un’improbabile compagnia costituita da un nano acculturato (il cui eloquio ricorda un po’ troppo quello del dottor King Schultz in ‘Django unchained’), un nero grande grosso e armato di un fucile che è più che altro un cannone, uno sceriffo bruciacchiato nonché un maiale selvatico addomesticato. Inoltre, visto che di formazione si tratta, il nostro troverà il tempo di dare la morte e incontrare l’amore, quest’ultimo nei panni di una giovanissima prostituta con una precedente clientela sorprendente (specie per Jack). Il bello è che tutto questo viene raccontato in un magistrale primo capoverso eppure il lettore si trova a girare compulsivamente le pagine grazie alla grande capacità di raccontare dello scrittore statunitense unita all’indovinata (ed empatica) definizione dei personaggi grazie a pochi tratti caratteristici. Lansdale conferma così le belle qualità che lo hanno reso famoso consentendo di essere indulgenti con alcuni difetti che, se non inficiano il divertimento complessivo, finiscono per piazzare il romanzo alle spalle dei lavori più riusciti in una virtuale classifica delle sue opere. Ad esempio, la parte centrale dà l’impressione di essere gonfiata in maniera artificiale – con l’aggiunta della deviazione quasi horror delle sofferte peripezie di Winton che durano troppo a lungo – e il finale è davvero troppo buonista, da Hollywood dei tempi d’oro, specie in confronto a tutto quello che l’ha preceduto. Il resto delle trecento e passa pagine compensa però in abbondanza, da tutto quello che riguarda il nonno nei primi capitoli agli ipercattivi da fumetto (ma mille volte meglio dello Skunk di ‘Acqua buia’ grazie soprattutto a quel Fatty che, torturato e ferito, ha la forza di portarsi a spasso gli inseguitori per mezzo Texas macchiandosi nel frattempo di ogni brutalità), dagli intermezzi di alleggerimento, come l’entrata in scena di Spot, alla convulsa, sanguinosa eppure a tratti esilarante sparatoria finale.
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